con: Rudolf Nureyev, Leslie Caron, Michelle Phillips, Seymour Cassel, Carol Kane, Felicity Kendal, Peter Voughan, Huntz Hall, William Hootkins.
Biografico
Regno Unito, Usa 1977
Utilizzare un registro lezioso nel portare in scena una biografia è quasi sempre un'arma a doppio taglio. Se l'eccesso è talvolta parte integrante della vita di un'artista o dell'arte che questi rappresenta, una rappresentazione eccessiva può portare facilmente al ridicolo involontario. Basti pensare a quanto successo nel tristemente famoso "Mommie Dearest", biopic di Joan Crowford nel quale Faye Dunaway interpreta la diva e i suoi manierismi in modo talmente marcato da sfociare irrimediabilmente nel camp, annullando ogni pretesa drammatica.
Ken Russell, d'altro canto, ha sempre saputo padroneggiare il registro grottesco e sopra le righe nelle sue biografie d'autore, spesso votate all'eccesso per trovare una forma espressiva efficace. Ma con "Valentino" il grande autore arriva al limite nella rappresentazione della vita di Rodolfo Valentino, adoperando un linguaggio filmico colorito che talvolta sembra non controllare; con la conseguenza che se, da una parte, questo ritratto del celebre divo è perfettamente riuscito negli intenti, dall'altro ogni forma di empatia verso il personaggio viene irrimediabilmente annullata, con tutte le conseguenze intuibili.
Italiano di origine pugliese, nato a Castellaneta in provincia di Taranto ed emigrato negli States a diciotto anni circa, Rodolfo "Rudolph" Valentino è stato il primo vero grande divo del cinema, il cui status di celebrità ha trasceso il grande schermo ed il gossip per divenire fenomeno culturale. Prova ne è stata l'isteria generale ai suoi funerali: morto ad appena 31 anni, nel 1926, per una peritonite, il corpo di Valentino è stato letteralmente oggetto di culto di un enorme corteo di donne, affascinante dalla sua aura di latin lover, primo esempio nell'intera storia del cinema. Una fascinazione talmente forte che portò persino alcune sue fan al suicidio alla notizia della sua scomparsa.
Una figura, la sua, certamente "bigger than life", sia per i personaggi che portava in scena, sia per l'archetipo di amante sensuale e romantico che incarnava, sia anche e soprattutto per la sua vita privata, foriera di relazioni appassionate e turbolente, talvolta anche con amanti di sesso maschile. La sua bisessualità, oramai accertata, all'epoca era comunque malcelata, tanto un giornalista arrivò persino ad insultarlo pubblicamente con una vignetta che ne questionava la virilità, con l'intento di dissacrarne la fama e rovinarne la reputazione presso il pubblico femminile. Cosa che comunque non avvenne, da cui la venerazione nelle ore immediatamente successive alla sua morte.
Ken Russell chiama ad interpretare questo monumento del cinema nientemeno che Rudolf Nureyev, il quale presta al personaggio il suo naturale carisma e soprattutto la sua fisicità statuaria, nonché le sue doti di ballerino, indispensabili per il ruolo. Se da questo punto di vista la scelta è azzeccata, si resta perplessi dinanzi alle doti recitative del compianto virtuoso della danza, troppo scolastiche e meccaniche; ma il suo stile è altresì perfetto per il ritratto portato in scena da Russell.
Il Valentino qui ritratto è un divo sia dentro che fuori lo schermo, perennemente ben vestito, i cui modi teatrali accompagnano ogni suo singolo gesto, sia un pubblico che in privato. Il punto di vista sugli scorci della sua vita è di fatto quello delle donne che lo hanno conosciuto, la cui la vistosa "teatralità" della sua figura, non quella di un uomo in carne ed ossa, bensì quella di un'idea percepita come forma idealizzata da chi l'osserva.
Da cui deriva anche il tono perennemente manierato del racconto, che diventa un'iperbole del reale sin da subito, sin da quelle immagini che ricreano i convulsi funerali e i personaggi che vi presero parte, anch'essi perennemente sopra le righe, smancerosi fino all'inverosimile. Non assistiamo ad una ricostruzione della realtà, ma ad una realtà estremizzata, in cui ogni gesto è esagerato, come a voler ricreare l'espressività propria del cinema muto, dove per forza di cose la recitazione doveva essere esagerata; o, ancora, la recitazione para-teatrale del cinema americano degli anni '20 e '30, dove ogni battuta è enfatizzata in modo deciso. "Valentino" non è così un film su Rodolfo Valentino, quanto un film sull'immagine di Valentino portata in scena in modo estetizzante e a sua volta stilizzata fino quasi al parossistico.
Le testimonianze filtrate portano irrimediabilmente ad un ritratto monco del personaggio. La bisessualità viene solo accennata nella prima scena che lo vede protagonista, ma mai davvero esplorata, il che è strano visto il curriculum del regista, che non si è mai fatto problemi a portare in scena personaggi ambigui, né pare realistico pensare ad una scelta precisa volta a non "infangare" la memoria dell'artista, visto che già nel 1977, ad oltre cinquant'anni dalla sua scomparsa, la pubblicazione dei suoi diari segreti aveva reso pubblica la sua sessualità, senza che tale notizia ne compromettesse in alcun modo il lascito.
La vita di Valentino diventa così una sarabanda di amori, invidie, eccessi e grandezza, con in sottofondo una nota amara che tuttavia non trova mai un posto adeguato, neanche nel mero sfondo degli eventi.
Tanto che alla fine, il ritratto che emerge è oltremodo ambiguo: chi era Valentino secondo Ken Russell? Un immigrato dal cuore d'oro e dai valori puri a suo modo corrotto dalla fama? Un vero latin lover incapace di contenere la sua libido? Un artista genuino ma schiacciato dallo studio system che gli tarpava le ali? La vittima di una società intollerante o del suo stesso ego? Forse tutto questo, forse nulla di questo al contempo. Ambiguità che tuttavia non dona profondità al ritratto, quanto una sua intrinseca schizofrenia, incapace di donare l'aura di mistero voluta.
E se per quasi tutto il film il registro regge, regalando un'esperienza certamente incompleta ma al contempo compatta, nel finale tutto crolla, con quel ricorso ad una drammaticità insistita che arriva troppo tardi e per questo risulta posticcia.
Quello di Russell resta così inevitabilmente un pastiche d'autore che trova la sua forza nel cinismo, ma che non solo non rende al personaggio che ritrae, ma arriva anche a risultare incompleto e indigesto. Un vero peccato.
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