di Mick Jackson.
con: Karen Meagher, Reece Dinsdale, David Brierly, Rita May, Nicholas Lane, Jane Hazelgrove, Henry Moxon, Sylvia Stoker, Harrey Beety.
Fantastico/Drammatico
Regno Unito, Australia, Usa 1984
Se c'è una lezione che può essere tratta dall'invasione russa dell'Ucraina (pur sempre ammettendo che un tale atto di codardia possa davvero insegnare qualcosa di positivo) è quella secondo la quale la stabilità politica e la relativa "pace" non devono mai essere date per scontate, nemmeno in uno scenario come quello europeo, il quale ha cercato di evitare conflitti su larga scala (riuscendoci solo talvolta) già del Secondo Dopoguerra.
Una lezione che la generazione dei nostri padri forse dava meno per scontata: pur essendo cresciuta negli anni '70, l'ipotesi di un conflitto nucleare a coronamento della Guerra Fredda sembrava in parte scongiurato, ma ciò solo fino agli anni '80, quando la politica intransigente di Reagan in America e della Thatcher in Gran Bretagna riportarono il gelo tra i due blocchi, con la conseguente minaccia nucleare pronta a riconcretizzarsi dopo quasi 20 anni di relativa quiete.
E' in uno scenario del genere che vede la luce l'apocalittico "The Day After", produzione televisiva che affronta di petto la questione e dà vita ad immagini verosimili di una guerra nucleare. E se l'esito della trasmissione di quel piccolo-grande film ha scosso l'opinione pubblica, quella di "Threads", altra produzione televisiva, questa volta britannica, avvenuta circa un anno dopo, nel 1984, ha finito per scioccare un'intera generazione di spettatori con le sue immagini ancora più sconvolgenti e realistiche.
Ma l'antecedente storico di "Threads" non è in realtà il film di Nicholas Meyer, bensì il mockumentary "The War Game"; prodotto nel 1965 e premiato con l'Oscar come miglior documentario, "The War Game" immagina, in appena 48 minuti, uno scenario post-nucleare realistico, dove l'invasione del Vietnam da parte della Cina porta alla catastrofe atomica. Considerato sin troppo straziante per la messa in onda, questo piccolo falso-documentario fu comunque l'apropista di una visione sofferente e veritiera della tragedia nucleare.
Nel 1982 il regista Mick Jackson (sbarcato anni dopo ad Hollywood, senza però riuscire a dirigere nulla di davvero memorabile) aveva prodotto il documentario "A Guide to Armageddon", portando in scena l'ipotesi nucleare e immaginando possibili scenari di sopravvivenza in modo "educativo" per il pubblico. Il produttore della BBC Alasdair Milne decide così di affidargli la produzione di un film-tv simile, che rappresentasse in modo realistico non solo l'apocalisse atomica, ma anche la società che da essa sarebbe scaturita.
Jackson ingaggia così lo sceneggiatore Barry Hines e insieme iniziano un'approfondita ricerca sull'argomento, visitando Hiroshima e Nagasaki per parlare con i sopravvissuti dei bombardamenti del 1945, intervistando scienziati e medici per capire a cosa davvero avrebbe portato la devastazione nucleare nella società occidentale. Alla notizia della messa in onda di "The Day After", il duo caldeggia però l'idea di abbandonare il progetto, salvo poi trovare nuova fiducia in esso una volta accortisi che il loro lavoro sarebbe stato differente e più penetrante rispetto alla controparte americana. Il che è quantomai vero.
La narrazione si apre in modo volutamente convenzionale. La voce narrante ci racconta dell'importanza delle interconnessioni sociali, i fili ("Threads") che collegano i singoli per farne tessuto sociale, per poi spostarsi alle vicende umane di due giovani, Ruth e Jimmy, che, poco alla volta, formeranno un nuovo nucleo famigliare. Mentre la vita degli abitanti di Sheffield scorre normale, sullo sfondo la tragedia monta poco alla volta: l'invasione sovietica dell'Iran porta gradualmente all'intensificarsi delle tensioni tra i due blocchi, il che sfocerà nella guerra atomica. Caduta la bomba, il registro cambia radicalmente, le storie dei singoli personaggi perdono importanza e questi divengono persone comuni, volti volutamente generici persi nel caos. E allo stesso modo, lo stile narrativo si fa più smaccatamente documentaristico, abbandonando quasi totalmente i dialoghi per riprendere le sole immagini come se fossero avvenimenti reali.
La società resta divisa in due. Da un lato i burocrati, che cercano di organizzare quel poco che è rimasto per assicurare una forma di sopravvivenza. Dall'altra i civili, che possono solo muoversi tra le macerie. A farla da padrone, sono le immagini della distruzione, tra le più sconvolgenti mai apparse su schermo, piccolo o grande che sia.
Corpi bruciati dal calore della bomba, persone mutate dalla malattia, città sventrate e ridotte a cumuli di macerie fumanti e i sopravvissuti ridotti ad ombre, fantasmi viventi che si trascinano tra i rimasugli di ciò che era alla disperata ricerca di qualcosa. Jackson porta in scena per primo gli effetti dell'inverno nucleare e a sconvolgere ancora più degli effetti a breve termine delle esplosioni sono quelli a lungo termine dati dal fall-out e dal freddo, con la vita che viene schiacciata dal gelo poco alla volta, sino a svanire.
Lo stile para-documentaristico rende il tutto più pregnante. Le fredde scritte che descrivono lo stato della popolazione intercalate alle immagini laceranti creano una sensazione di disagio palpabile. La descrizione della società post-apocalittica di Jackson finisce così per essere non solo la più realistica, ma anche la più tagliente.
La narrazione, tuttavia, non si limita a descrivere solo il dopo-bomba. Con un flashfarward di 13 anni ritroviamo alcuni dei personaggi nella società che si è costituita dopo la catastrofe. Riallacciati i fili del tessuto civile, la nuova realtà è una sorta di Medioevo venturo, dove la sussistenza è l'unica forma di sopravvivenza assicurata, dove si può non sopravvivere all'inverno, la lingua si è involuta e le razzie sono all'ordine del giorno. E il film si chide con un'ulteriore tragedia: la figlia di Ruth, nata dopo la catastrofe, da a sua volta alla luce una nuova vita. Ma se la prima si è salvata a stento e non ha riportato conseguenze fisiche a causa delle radiazioni, la nuova generazione soffrirà sin dalla nascita a causa delle mutazioni, con la sopravvivenza totale della razza umana messa definitivamente in discussione. Da cui non una chiusura, bensì una semplice interruzione del racconto, che potrebbe in realtà durare all'infinito.
La visione è a dir poco sconvolgente. In neanche due ore lo spettatore viene rapito e trasportato in un mondo "altro", ma incredibilmente vero, in un racconto che non concede tregua, non ha paura, né si tira indietro di fronte a nulla. "Threads" è un film coraggioso prima ancora che realistico, che non ha paura di essere sgradevole e riesce a non scadere nel compiaciuto. Un miracolo di stile, estetica e sostanza ancora oggi sconcertante.
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