giovedì 25 gennaio 2024

Il Cacciatore

The Deer Hunter

di Michael Cimino.

con: Robert DeNiro, Meryl Streep, Christopher Walken, John Savage, John Cazale, George Dzunzda, Chuck Aspergen, Rutanya Alda, Mandy Kaplan.

Drammatico/Guerra

Usa, Regno Unito 1978 












Durante la cerimonia degli Oscar del 1979, alla notizia della vittoria de "Il Cacciatore" come miglior film, pare che Jane Fonda (che quella stessa notte aveva vinto il suo secondo Oscar, questa volta per "Tornando a Casa") abbia urlato in faccia a Michael Cimino qualcosa tipo "Sei un fascista!".
A sentire questo bizzarro aneddoto oggi (e ammesso anche che sia vero), si resta spiazzati, soprattutto se si è visto e amato il film. Ma all'epoca, a circa cinque anni dalla fine del conflitto in Vietnam, vedere trionfare un film del genere poteva davvero apparire come blasfemo; questo perché quel finale dove i personaggi, sopravvissuti a tutti gli orrori possibili connessi alla guerra, si riuniscono per cantare "God bless America" come a voler perdonare il governo, era davvero qualcosa di irritante. E non per nulla, anche molte associazioni di reduci avevano ampiamente contestato il film quella stessa notte, oltre che nei giorni precedenti.
La domanda è quindi d'obbligo: Cimino condonava gli orrori degli Stati Uniti in Indocina e la morte di migliaia di giovani americani dati in pasto alla macchina bellica?
Una risposta positiva potrebbe essere anche in parte veritiera, ma sarebbe riduttiva e alla fine anche fuorviante, poiché lo stesso Cimino ha più volte affermato di non aver mai voluto fare un film politico, quanto un film sulle persone, sui rapporti d'amicizia nell'America operaia e di come questi restino saldi nonostante tutto. E anche (ma non solo) per questo, "Il Cacciatore" è ancora oggi un capolavoro commovente.




Cimino, dal canto suo, è quasi un'anomalia all'interno del panorama della New Wave americana. Inizia come sceneggiatore, firmando tra l'altro anche quel "Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan" che aggiustava il tiro del buon gusto rispetto al primo, "fascistissimo", film. "Il Cacciatore" è la sua seconda regia e a differenza dei colleghi coevi non sfoggia particolari velleità cinefile, non vuole rivoluzionare la narrativa filmica americana, non ha intenzione di rielaborare il lascito degli autori "classici" americani o di quelli europei. Come quasi tutti i suoi film, è un'opera "quadrata", classica nel suo voler narrare una storia nel miglior modo possibile, senza fronzoli velleitari o rimandi metatestuali. Una pellicola immediata, genuina, che punta tutto sulla carica drammatica della storia e sul suo pugno di personaggi.




Da questo punto vista, il cuore pulsante di tutto il film è il primo atto, la lunga sequenza del matrimo che occupa quasi un terzo della durata, scena-madre prima della scena-madre più famosa, quella della roulette russa, spesso citata come esempio di inutile opulenza narrativa, in realtà necessaria per stabilire l'intero racconto.
E' qui che, come la tradizione della tripartizione in atti vuole, conosciamo i personaggi, li vediamo uscire dall'acciaieria scorgendo il duro lavoro, osserviamo quasi voyeuristicamente i loro drammi umani (le violenze in famiglia subite dal personaggio di Meryl Streep), vediamo i legami che li uniscono in pieno regime, assistiamo alla santificazione di uno di questi, con il matrimonio di Steven (John Savage), testimoniano quell'unione amicale inscindibile con la prima escursione in montagna e l'intero gruppo che si riunisce per cantare "Can't take my eyes off of you". E' la normalità, la vita comune che trova bellezza nelle piccole cose, nell'umanità dei rapporti. Ed è questo il perno del dramma, la colonna portante che sostiene tutto il coinvolgimento emotivo, strutturato come l'ultimo giorno prima della perdita dell'innocenza. Individuale e collettiva, con l'arrivo in Vietnam.




Sempre all'epoca della sua uscita, "Il Cacciatore" venne criticato per la verosimiglianza: stando a quanto riportato dai reduci e dagli analisti, la roulette russa non veniva praticata in Vietnam, tantomeno nei campi di prigionia nei quali venivano internati i soldati americani. Cimino ha dovuto così spiegare la sua scelta artistica dapprima dicendo di aver sentito come la stessa venisse praticata nel sottobosco criminale di Singapore, in un secondo momento (e con una regione decisamente più veritiera) affermando come sia stata necessaria per rappresentare la pressione psicologica alla quale i soldati sono esposti.
Era impossibile, secondo lui, rappresentare a dovere l'esperienza bellica su pellicola con la giusta efficacia. In un medium dove la rappresentazione passa per l'immagine, dunque per l'azione, ridurre i combattimenti ad una scena di un pugno di minuti, per quanto spettacolare, non avrebbe mai potuto restituire a dovere lo stress dei soldati; questi vivono costantemente con una spada di Damocle sulla testa, nella paura che un vero e proprio proiettile invisibile possa trapassarli uccidendoli prima ancora che se ne rendano conto. Da cui l'idea di un pistola puntata alla testa con un proiettile pronto a sparare.
La sequenza, lunga, tesa, dolorosa, disperata, è ancora oggi sconvolgente per impatto emotivo ed estetico, riesce a trasmettere lo stato di paura costante dei protagonisti alla perfezione, anche grazie alla straordinaria performance del trio di interpreti. Da manuale, in particolare, la contrapposizione tra la disperazione urlata di DeNiro e l'introiezione totale data invece da Christopher Walken.
L'avversione di Cimino verso il conflitto in Vietnam è in fondo da ricercare qui, nel modo impietoso con il quale ritrae l'orrore sconcertante che questi giovani uomini affrontano, il modo in cui il cambia interiormente. Se la seconda parte del film racconterà le ferite fisiche e psicologiche che i personaggi di Michael, Nick e Steven si porteranno addosso per il resto della loro vita, è nella prima scena di questo secondo atto che il dramma si è già consumato, con la riunione dei tre personaggi al villaggio vietnamita, con Michael che non riconosce i due amici, perso in un inferno del tutto personale che ha già cominciato a consumarlo. Da cui l'impossibilità di definire il film e lo sguardo di Cimino come reazionari.




Il terzo e l'ultimo (quarto) atto raccontano la tragedia del ritorno a casa, l'impossibilità di tornare ad una forma di normalità; per Michael, che ha incanalato e chiuso dentro di sé tutto le tragedie che ha visto e compiuto, c'è l'impossibilità di tornare ad uccidere, con la caccia al cervo che culmina con la sua accettazione di tale limite, la scoperta, inconscia e mai davvero ricercata, della sacralità della vita. 
Per Steven c'è la menomazione fisica, la perdita del corpo che comporta la distruzione dell'unione celebrata a inizio film, la distruzione di un rapporto dovuta all'incapacità di una partner di accettare tutte le limitazioni dovute all'handicap.
Per Nick c'è il non-ritorno, l'incapacità di distaccarsi da quella forma di "scommessa con la morte", quel brivido divenuto droga. Anche il suo, come quello di Michael, è un destino tracciato dal PTSD, che si consuma però fino alle estreme conseguenze.



Ciò che resta, alla fine, è una forma di comunione amorosa e affettiva, la realizzazione di essere sopravvissuti, Quel canto finale, più che una forma di perdono vero e proprio, è una forma di testimonianza, un grido che afferma come questo pugno di personaggi, pur distrutti dal lutto e dai traumi, è ancora vivo; che, come la protagonista di "Le Notti di Cabiria" di Fellini, possono e vogliono ancora andare avanti.


Se Cimino avesse davvero voluto fare un film reazionario, non avrebbe mai girato la scena della roulette russa. Ma, soprattutto, non avrebbe in generale mai diretto un film come "Il Cacciatore", non avrebbe dato corpo ai drammi dei sopravvissuti, non avrebbe descritto queste vite spezzate in modo così forte, non avrebbe dato spazio al trauma fisico o psicologico, né avrebbe chiuso il film con un funerale.
Il suo è un canto doloroso, che celebra la vita, ma nella sua accezione di pura sopravvivenza, senza vergognarsi di mostrare il dramma, anzi dipingendolo (in puro stile New Wave) nel modo più vivido possibile.


EXTRA

Ultimo film per il grande John Cazale.



Solitamente visto come un caratterista, era in realtà un attore a tutto tondo, che creava i personaggi dando loro una caratterizzazione anche fisica precisa, tanto che Al Pacino lo ha citato più come fonte di ispirazione personale per il suo metodo recitativo.
Protagonista indiscusso del cinema americano degli anni '70, deve ancora oggi la sua fama al ruolo di Fredo Corleone nella saga de "Il Padrino", ma il suo volto spunta anche in altri due capolavori dell'epoca, ossia "Quel pomeriggio di un giorno da cani" e "La Conversazione".
Durante le riprese de "Il Cacciatore" si sottoponeva alla chemioterapia per curare quel cancro che alla fine avrà purtroppo la meglio su di lui. Arrivato sul set già malato (accompagnato da Meryl Streep, sua compagna di vita all'epoca), muore nel marzo 1978, senza aver mai potuto vedere il film finito.

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