sabato 27 gennaio 2024

Il Figlio di Saul

Saul fla

di Làslzò Nemes.

con: Géza Röhrig, Levante Molnàr, Urs Rechn, Jerzy Walczak, Gergö Farkas, Balázs Farkas, Sándor Zsótér, Uwe Lauer, Christian Harting.

Drammatico

Ungheria 2015












Celebrare una ricorrenza come il Giorno della Memoria quest'anno è arduo. Questo perché si è arrivati al punto in cui gli orrori della Shoah sono perpetrati dai discendenti di chi li ha subiti originariamente, con veri e propri campi di prigionia che spuntano nei dintorni di Gaza, questa volta ad opera del popolo ebraico.
Una celebrazione volta a ricordare la persecuzione di quello stesso popolo affinché una cosa del genere non possa più ripetersi appare paradossale e ai limiti dell'ipocrita. Ma, forse, è proprio questo il motivo per cui va fatta, per ricordare quanto facile sia dimenticare, quanto importante sia ricordare le immagini di quegli orrori anche quando vengono ripetuti impunemente, anche quando le vittime del passato sono diventati i carnefici del presente. Oltre che, ovviamente, per onorare la morte di quegli innocenti la cui unica colpa era (allora come ora) quella di appartenere ad una data popolazione.
E "Il Figlio di Saul" è forse la pellicola perfetta per celebrare una ricorrenza in modo anomalo e anticonvenzionale.



Anticonvenzionale, "Il Figlio di Saul" lo è principalmente nel racconto, quella messa in scena che riprende tutti i luoghi comuni del cinema "autoriale" del secondo decennio del XXI secolo e li fonde per creare una visone volutamente scomoda. Il rapporto d'aspetto dell'immagine è in 4:3, le scene sono costruite come lunghi piani sequenza girati rigorosamente ad altezza d'uomo, la macchina da presa tampina i personaggi (principalmente il protagonista) dalle spalle con le canone "inquadrature da nuca", i dialoghi sono ridotti all'osso, così come il commento musicale. Eppure qui, per una volta, tutto ha perfettamente senso, poiché Làslzò Nemes vuole rappresentare una forma di testimonianza di un orrore celato.



La violenza, il sangue, i corpi martoriati degli internati nel campo di prigionia ove si svolge la storia, restano o fuori scena o fuori fuoco; la profondità di campo è sempre bassa, così come lo è lo sguardo di Saul, che attraversa la carneficina guardando sempre in terra o avanti, cercando di non soffermarsi sulle atrocità che gli si parano innanzi. Il suo è lo sguardo di un innocente che cerca di ritrovare quella purezza che ha perduto, quel figlio che non ha mai avuto, il cui funerale è ragione di vita, catarsi ottenuta solo per sfuggire nuovamente. Poiché nel massacro degli innocenti, l'innocenza non può rinascere, non può affermarsi, può solo essere inevitabilmente annientata (come ne "L'Infanzia di Ivan" o nell'imprescindibile "Va' e Vedi"), al massimo fuggire via in preda alla paura.




L'orrore dell'Olocausto, di conseguenza, non può avere una forma piena e completa, non può trovare una perfetta rappresentazione poiché troppo terribile, troppo insostenibile; una forma, una qualsiasi, finirebbe per limitarne la portata che, in quanto semplici spettatori, possiamo solo osservare di sfuggita, percepire in modo indiretto.
Nemes, allievo anche di fatto di Béla Tarr, lascia che sia il nostro sguardo a insistere sui dettagli fuori fuoco, che, in quanto tali, non esistono se non nella nostra mente, divenendo così infinite volte più raccapriccianti. Il suo più che un dramma è un film dell'orrore vero e proprio; e come nei migliori film di genere, è la mente dello spettatore a cadere nel raccapriccio grazie ad un violenza solo suggerita.



Il risultato è una visione a tratti insostenibile nel suo voler essere ferocemente implicita. Nemes riesce così a restituire perfettamente quell'orrore irriproducibile, a trasmettere l'angoscia e la disperazione di uomo (e di un popolo) che impara a convivere con l'orrore.

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