venerdì 28 febbraio 2025

Captain America: Brave New World

di Julius Onah.

con: Anthony Mackie, Harrison Ford, Giancarlo Esposito, Tim Blake Nelson, Danny Ramirez, Shira Haas, Xosha Roquermore, Carl Lumbly.

Azione/Thriller

Usa 2025













Ricapitoliamo tutta la storia produttiva di "Captain America: Brave New World".
La produzione inizia ufficialmente a metà del 2021, praticamente subito dopo la pubblicazione dell'episodio finale di The Falcon and the Winter Soldier su Disney+, sotto il titolo di "Captain America: New World Order".
A riprese completate, il test-screening è un disastro, con il pubblico che lo definisce come uno dei peggiori exploit dello MCU. Una prima sessione di riprese aggiuntive per "aggiustare" il prodotto entra quindi subito in produzione, ma al secondo test-screening il risultato non è migliore e nel frattempo il film cambia anche titolo in "Brave New World", con il preciso scopo di non stuzzicare i cospirazionisti perdigiorno. Arriva dunque una terza sessione di riprese, a conclusione della quale viene anche rivelato il primo teaser del film e fissata la data di uscita al 14 Febbraio 2025, circa quattro anni dopo l'inizio della produzione. Nel mentre, un'ulteriore sessione di riprese viene effettuata per cercare di creare un prodotto con un minimo di coerenza.
Una storia produttiva che ricorda quella di Ant-Man, il quale fu scritto in un modo da Edgar Wright, girato in un altro da Peyton Reed dopo il suo licenziamento e montato in un terzo per cercare di rendere il tutto più fluido. Ma se in quel piccolo exploit le tre visioni bene o male riuscivano a mescolarsi, qui la sensazione di guardare un qualcosa di monco è evidente.



Cosa sia rimasto del progetto originario non è chiaro. Alcune voci di corridoio parlano della presenza iniziale di She-Hulk come villain aggiuntiva al fianco del Leader, eliminata sia per il flop della serie omonima, sia per l'effetto ridicolo del suo ruolo nella storia: pare che l'eroina avrebbe dovuto cambiare bandiera solo per, letteralmente, attirare l'attenzione del cugino. Modifica praticamente confermata è invece quella che ha visto i cattivi della Serpent Society, storico gruppo di avversari di Capitan America presenti anche nel film finito; nei piani originari avrebbero dovuto avere dei superpoteri, ma in fase di post-produzione questi sono stati eliminati e il gruppo è stato ridotto ad un misero drappello di anonimi mercenari.
Destino simile è toccato al personaggio di Ruth Bath-Seraph, supereroina di origine israeliana che avrebbe dovuto avere un ruolo di spicco negli eventi, ma che alla fine è poco più di una spalla, ridimensionamento seguito probabilmente alla scoppio della tragedia di Gaza. Quanto al coinvolgimento di Giancarlo Esposito nei panni del villain Sidewinder, leader dei Serpent, alla fine ciò che resta è solo un tizio armato di fucile che compare di tanto in tanto.
E in tutto questo, non si capisce in quale parte della linea temporale dello MCU questa vicenda sia ambientata, visto che non si fa menzione degli eventi di Secret Wars o di The Marvels, forse prima o forse dopo questi e tutti hanno dimenticato il vecchio presidente e la sua guerra agli alieni.



L'operazione di taglia e cuci tra le varie versioni del film ha così portato ad un prodotto che di certo non fa rimpiangere la bruttezza di The Marvels, ma che alla fine è di una blandezza sconcertante: poco meno di due ore dove nulla risalta, la storia è basilare e priva di veri spunti di interesse e l'azione, pur ben congegnata, è piatta.
La cosa più evidente è come tutta la trama manchi di un focus preciso. Tutto dovrebbe essere trainato dalla vendetta del Leader, che finalmente si mostra a quasi vent'anni dal cliffhanger visto ne L'Incredibile Hulk. Una vendetta volta a mostrare al mondo come il suo carceriere Thunderbolt Ross non sia cambiato, sia ancora il "caccia-Hulk" guerrafondaio delle origini e non un presidente preoccupato per il bene dell'intero globo. Una motivazione in realtà evanescente, che riduce ad un semplice scontro di personalità una storia che avrebbe anche ambizioni da fantapolitica e spy-story.
L'eco di The Winter Soldier è forte nella prima parte, dove il mistero sugli agenti dormienti è il traino principale, così come la tematica della collaborazione mondiale per il corretto sfruttamento delle risorse, qui il mitico adamantio, riletto come il materiale di cui è costituito il celestiale nato alla fine di Eternals e ora calcificatosi.
Ma più il film procede, più questa ambizione si va perdendo e il tutto alla fine si appiattisce sulle più che ovvie coordinate di un thriller d'azione. Fino ad arrivare al mid-point, con il disvelamento del villain e la scelta di virare tutto verso l'action scontato.



La cosa strana che emerge da questo montaggio definitivo è come Sam Wilson non abbia nessun peso narrativo. Il vero protagonista è Thunderbolt: suo è il conflitto, suo l'arco caratteriale. E va dato merito a Harrison Ford, ultraottantenne e a sua detta a che fare con un personaggio nel quale si è limitato a fare lo scemo, il quale non si è risparmiato e ha dato comunque una buona performance. Anthony Mackie, d'altro canto, appare talvolta spaesato, probabilmente a causa delle molteplici sessioni di riprese; ma il problema è proprio il personaggio per se stesso, il quale è il classico "eroe che non si sente all'altezza del mentore", praticamente lo Spider-Man di Homecoming, qui riproposto giusto per dare un senso al fatto che sia lui il protagonista; un conflitto che per di più sembrava aver superato alla fine della serie in streaming e che qui ritorna solo perché altrimenti non avrebbe letteralmente nulla da dire. E quando poi questo Cap senza poteri si rialza come se niente fosse dopo aver subito colpi di accetta e d'arma da fuoco, la sospensione dell'incredulità vacilla.
Quanto agli altri personaggi, c'è davvero poco da dire. Il nuovo Falcon, vero e proprio Robin della situazione, è una macchietta. Ruth Seraph è lì giusto per fare numero e la scelta di far interpretare un ex vedova nera e agente di sicurezza supercazzuta a Shira Haas, attrice di un metro e mezzo, genera matte risate. Quanto al Leader è un mcguffin vivente e nulla più, tutte le potenzialità derivanti da un cattivo il cui potere è praticamente quello di predire il futuro vengono evitate per risparmiarsi mal di testa in sede di scrittura (o riscrittura o ri-riscrittura, chissà).



Juluis Onah ha anche diretto The Cloverfield Paradox, ma il suo curriculum è quello di un autore indie; la scelta di affidargli la regia di un blockbuster, inutile cercare di negarlo, è ascrivibile al suo essere afroamericano (evidentemente solo un nero può dirigere un film su di un Cap nero...). La sua volontà di creare scene divertenti è forte, ma paga lo scotto dell'inesperienza: le coreografie sono convincenti, ma la costruzione delle singole scene è ovvia e priva di inventiva. L'unico momento in cui riesce a dare qualcosa di apprezzabile è ovviamente nello scontro finale contro Hulk Rosso, il quale però dura troppo poco per giustificare la visione.
La noia, come da copione, fa capolino, visto la basilarità della storia e la debolezza della messa in scena. Alla fine, più che ad un blockbuster da sala, sembra di stare guardando un semplice special direct-to-streaming: un qualcosa di dignitoso, ma totalmente dimenticabile.

giovedì 27 febbraio 2025

R.I.P. Gene Hackman



1930 - 2025

Benché spentosi alla veneranda età di 95 anni, non si può non vedere la morte di Gene Hackman come prematura, viste le circostanze in cui appare essere avvenuta.
Piccola-grande leggenda di Hollywood, ha attraversato quasi quattro decadi nella Mecca del Cinema, iniziando agli albori della New Wave e ritirandosi a metà degli anni '00.
Il suo era un volto anticonvenzionale, "da caratterista", che lui stesso definiva con ironia "da patata". Ma il suo immane talento gli ha permesso di regalarci alcune performance indimenticabili.



Gangster Story (1967)

Quasi un esordio sul grande schermo, Hackman interpreta Buck Barrow, fratello di Clyde che si unisce a lui e Bonnie nelle loro imprese criminali, in quello che è praticamente il film fondativo della Nuova Hollywood.




Il Braccio Violento della Legge (1971)

Jimmy "Popeye" Doyle, poliziotto integerrimo, ma anche violento e razzista. William Friedkin ricrea da zero il poliziesco e Hackman dà vita al prototipo dello sbirro dai modi spicci, che in questa prima incarnazione è molto più moralmente ambiguo di quanto si possa credere.



L'Avventura del Poseidon (1972)

Forse il miglior esponente del filone "catastrofico" anni '70. Hackman interpreta un reverendo, nella sua performance più fisica.




Lo Spaventapasseri (1973)

In coppia con Al Pacino e per la regia di Jerry Schatzberg; i due divi interpretano due "drifters" che attraversano un 'America mai così amara, in un piccolo capolavoro da riscoprire.



La Conversazione (1974)

Henry Caul è un esperto in intercettazioni che si ritrova invischiato in una storia di tradimenti la quale cela ramificazioni ben più oscure. La paranoia di un "ascoltatore silenzioso" in un capolavoro minimalista nel quale Hackman dona un'interpretazione sottilissima, semplicemente straordinaria, per un ruolo che riprenderà nel 1998 con il bel Nemico Pubblico.




Divenuto una star grazie a pellicole serie e ruoli drammatici, Hackman non volle farsi accreditare sulle locandine del film per non fuorviare il pubblico. In compenso, il suo eremita cieco è protagonista della scena forse più divertente del capolavoro di Mel Brooks.



Bersaglio di Notte (1975)

Collaborando nuovamente con Arthur Penn dopo Gangster Story, Hackman interpreta Harry Moseby, detective la cui passione per le donne lo porta sull'orlo del baratro durante una losca investigazione.



Il Braccio Violento della Legge n°2 (1975)

"Popeye" Doyle in trasferta a Marsiglia con vendetta. Ma questa volta finisce con le spalle al muro, in un sequel meno radicale del capostipite, ma lo stesso favoloso.




Cachet da superstar per il blockbuster dei fratelli Salkind. Hackman stringe una forte amicizia con il regista Richard Donner e con Christopher Reeve, per dare vita ad un Lex Luthor sornione e gigionesco.



Reds (1981)

Di nuovo al fianco dell'amico Warren Beatty, Hackman prende parte al kolossal scomodo sugli eventi della vita di Jack Reed e del Partito Comunista Americano.



Mississippi Burning- Le Radici dell'Odio (1988)

Nel corso degli anni '80 la carriera di Hackman subisce un calo. Ma verso la fine del decennio è protagonista di questa rielaborazione di un infausto caso di cronaca che portò alle prime condanne contro il Ku Klux Klan, in un film di grande successo che iniziò a creare una vera catarsi verso la segregazione razziale in America.



Gli Spietati (1992)

Nel capolavoro del western crepuscolare di Clint Eastwood, Hackman interpreta uno sceriffo anziano, ma dall'indole sadica. Un ruolo nuovamente complesso che il grande attore fa suo e che gli valse persino un Oscar.




Pronti a Morire (1994)

Sam Raimi dirige con gusto ludico uno spaghetti western su invito di Sharon Stone. Hackman interpreta il luciferino villain, una figura paterna dalla cattiveria ineluttabile.




L'Ultimo Appello (1996)

Sam Cayhall è un ex membro di un gruppo neonazista, nel braccio della morte per aver fatto saltare in aria una chiesa piena di fedeli di colore. Ma è davvero lui il responsabile della strage?
Come sempre solido e convincente, Hackman prende parte ad un intenso film per la televisione che all'epoca venne distribuito anche in sala.



Potere Assoluto (1997)

Di nuovo al fianco di Clint Eastwood, Hackman è un presidente degli Stati Uniti fedifrago e assassino, nel suo ruolo più genuinamente inquietante.



Il Colpo (2001)

Scritto e diretto da David Mamet, Hackman interpreta un ladro alle prese con un "colpo grosso", in un meccanismo narrativo talmente preciso da essere stupefacente.




I Tenenbaum (2001)

Nel film che ha dato il via alla carriera di Wes Anderson, Hackman è un patriarca tanto ciarlatano quanto adorabile.



La Giuria (2003)

Nella sua penultima interpretazione, Hackman prende parte ad un ottimo adattamento di un romanzo di John Grisham, nel quale interpreta uno spietato avvocato al soldo della lobby delle armi.

lunedì 24 febbraio 2025

The Brutalist

di Brady Corbet.

con: Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwin, Stacy Martin, Raffey Cassidy, Isaach De Bonkolé, Alessandro Nivola.

Usa, Regno Unito, Canada 2024

















Alla fine delle oltre tre ore e venti minuti di durata, The Brutalist si chiude con un monologo che culmina con una statuizione secondo la quale ciò che conta è la destinazione, non il viaggio.
Un'affermazione del tutto coerente con quella che è la filosofia della architettura brutalista, che tende a guardare al futuro seppellendo il passato sotto le tonnellate di cemento esposto alla vista dell'osservatore; ed è coerente anche con il film, con l'enfasi che alla fine viene posta sul personaggio di Zsòfia, la giovane nipote del protagonista, e la di lei figlia, che appare proprio nell'epilogo. Persino il nome del protagonista, Làszlò Tòth, viene ricalcato su quello del famigerato geologo che nel 1972 vandalizzò La Pietà di Michelangelo, ossia un atto teso a distruggere il fardello dell'arte del passato, il peso di ciò che è stato per spingersi verso il futuro.
Eppure, durante quelle tre ore e venti, lo spettatore non può che chiedersi quale sia effettivamente la destinazione del film, cosa il giovane filmmaker Brady Corbett abbia davvero voluto raccontare con questa storia su di un architetto di origine ungherese emigrato in America alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un'epica? Forse, visto il fantasmagorico formato delle immagini; una storia intimista? Probabilmente, vista l'enfasi posta sul rapporto con la moglie Erzsebét. Un atto d'accusa verso chi sfrutta gli immigrati? Anche questo è probabile. Il ritratto di un artista che coniuga fin troppo bene genio e sregolatezza? C'è anche questo.
Ma tutti questi spunti restano sempre tali e nulla viene davvero sviluppato. Tanto che, appunto, ci si chiede quale sia il punto focale effettivo di tutta la narrazione.



L'idea alla base è quella di creare una narrazione epica, appunto, che parli di uomini dalle ambizioni smodate. Tòth è un architetto in fuga dall'Ungheria occupata dai Nazisti, il suo mecenate Harrison Van Bueren un imprenditore che vuole farsi filantropo. L'affinità elettiva tra i due è il traino per il futuro.
Letta così, la sinossi ben potrebbe essere confusa con quella del Megalopolis di Coppola: anche lì il protagonista è un architetto che cerca di creare un'utopia futura, anche Coppola si interroga su chi e come possa creare un futuro migliore o anche semplicemente più bello per il prossimo.
Ma se Coppola ha le idee chiarissime su cosa narrare e come narrarlo, il giovane Corbet, pur al suo terzo lungometraggio e assistito in sede di sceneggiatura dalla compagna Mona Fastvold, commette l'errore di molti principianti e inserisce tematiche eterogenee nel racconto,senza mai dar loro il giusto corpo.



Il ritratto di Tòth è completo, ma stereotipato, con la dipendenza da alcol e eroina che ne scandisce il lavoro sul mastodontico centro congressi a ritmi regolari, ma non finisce mai per diventare la sua rovina. La riflessione sulla forza dell'arte resta sempre sullo sfondo, non trovando un corpo effettivo. La storia d'amore, appassionata e dannata, tra i due sposi percorre tutto il film, ma non porta mai ad una vera catarsi. Il rapporto tra artista e mecenate dovrebbe farsi controverso nel finale, ma non lo è mai davvero. La sottotrama su Zsòfia e le sinistre attenzioni del figlio di Van Buren non porta poi letteralmente da nessuna parte. Quanto poi alla tematica riguardante l'architettura brutalista, essa viene data praticamente per scontata: il brutalismo è l'arte del futuro perché oltrepassa tutti i canoni del passato per ritrovare l'essenzialità e questo viene solo mostrato dalle foto di repertorio e da qualche linea di dialogo, nulla più.
L'unico spunto che potrebbe dirsi riuscito è quello riguardante l'immigrazione: alla fine, The Brutalist non è che l'ennesima storia di un reietto che raggiunge la gloria grazie all'America. E nulla più.



Si potrebbe così pensare a The Brutalist come ad un'epica totalizzante stile vecchia Hollywood, dove sono le immagini a convogliare temi ed emozioni. E anche così si sbaglierebbe.
Il formato "d'antan" Vistavision viene sprecato, visto che tutte le scene consistono in dialoghi narrati dai protagonisti. Qua e là compare qualche immagine ispirata, qualche taglio delle forme essenziali nel cantiere o quel piano sequenza iniziale che praticamente brucia tutta la creatività della regia, ma per il resto l'uso del formato appare più che altro un vezzo autoriale. Persino quando l'azione si sposta nelle cave di Carrara, che da sole avrebbero potuto portare a creare immagini memorabili tra ambienti naturali e tagli di luce con spazi negativi, la regia si fa lo stesso timida. Ma, in compenso, non risparmia la visione, davvero trash, di una "dolce vita" nelle cave...



The Brutalist è, in buona sostanza, un'epica che non crede fino in fondo a ciò che vuole raccontare; che quindi, non è davvero epica; narrata poi da un autore che preferisce non correre rischi di sorta, né con la storia, né con la messa in scena. 
Se il racconto appare corretto, non è mai davvero profondo, mai davvero coinvolgente, mai davvero epico, appunto. Sempre garbato, mai memorabile. In questo, è praticamente l'opposto del film di Coppola, che invece decideva di correre tutti i rischi possibili e immaginabili, dimostrando un coraggio che evidentemente solo pochi autori vogliono permettersi.

mercoledì 5 febbraio 2025

La Classe Operaia va in Paradiso

di Elio Petri.

con: Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Salvo Randone, Gino Pernice, Luigi Diberti, Donato Castellaneta, Giuseppe Fortis, Corrado Solari, Flavio Bucci, Carla Mancini, Nino Bignamini, Alberto Fogliani.

Drammatico/Grottesco

Italia 1972















La sera del 19 Maggio 1972, la Palma d'Oro della 25ma edizione del Festival di Cannes viene assegnata, dalla giuria presieduta da Joseph Losey, ex equo tra Il Caso Mattei e La Classe Operaria va in Paradiso. Al contempo, Gian Maria Volonté viene insignito del premio speciale della giuria per le interpretazioni date in entrambi i film.
E' forse questo l'apice del successo del filone del cinema dell'impegno civile italiano, che qui trova non solo la massima onorificenza possibile, ma anche un doppio riconoscimento a due dei suoi autori più importanti e rappresentativi. E a due film praticamente agli antipodi.
Laddove Il Caso Mattei è un film di inchiesta che tenta di gettare luce su di un mistero della storia recente italiana, che quindi fonde come da tradizione il racconto di fiction con una scrittura para-documentaristica, La Classe Operaia è un perfetto esponente del cinema di Elio Petri, un racconto tanto grottesco quanto disperato sulla lotta di classe, che dà voce a quegli "ultimi" che tanta politica e tanto cinema fanno loro, ma che al contempo trattano spesso con condiscendenza.





















Petri, al contrario, riprende il toto la posizione del suo protagonista, Ludovico "Lulù" Massa, nomen omen da prototipo dell'operario tipo, un uomo che ha sempre lavorato e che a poco più di trent'anni si ritrova mezzo morto e bloccato nell'inferno del capitalismo.
Lulù è un uomo comune, che Petri e Volonté si divertono a tratteggiare con piglio caricaturale, ma mai dispregiativo. Un uomo per il quale il lavoro è tutto, ma che viene inevitabilmente schiacciato dai ritmi del capitalismo industriale. 
Viene introdotto come uno stakanovista che se ne infischia delle condizioni di lavoro e persino dei diritti dei lavoratori: per lui l'essenziale è l'ottenimento del bonus, quindi quella del cottimo è una realtà con la quale venire necessariamente a patti. Intorno a lui, Petri tratteggia uno scenario da Inferno dantesco: supervisori che con cronometro alla mano rimproverano gli operai per singoli secondi di ritardo, colleghi che si divertono ad insultarlo per la sua dedizione al lavoro e un padrone evanescente, che compare di tanto in tanto come un fantasma per non lasciare traccia dietro di sé.


















Per Petri il problema non è la fabbrica, ma il sistema capitalistico di per sé stesso. Un sistema che riduce le persone ad ingranaggi, che le sfrutta dando loro il minimo indispensabile e che addossa loro ogni errore del processo produttivo. 
La dinamica è quella classica del marxismo, con l'essere umano ridotto ad uno strumento di produzione: vediamo Lulù nella prima scena svegliarsi anzitempo perché non riesce a dormire, essendo i suoi ritmi vitali ormai tarati sui processi produttivi. Per tutto il film non solo ammette di essere "alienato" rispetto al bene che produce, ma persino di subire di deficienze sessuali, tanto che per sopportare il ritmo del lavoro finge che l'attività produttiva sia quella sessuale. Quando poi finalmente riesce a superare il blocco, quello che ottiene è un puro sfogo, con la giovane collega a lungo agognata, appena deflorata, che si chiede dove sia l'amore. L'amore, ovviamente, non può esistere in una realtà dove esistono solo le logiche del profitto e della produzione.




















Lulù viene così caratterizzato non come una semplice vittima, ma come un sopravvissuto, un uomo che cerca di ottenere il meglio dall'inferno della fabbrica. Situazione che ovviamente si capovolge quando resta ferito e abbandonato a causa del lavoro, ritrovandosi isolato e per questo ovviamente arrabbiato.
Nel dipingere i rapporti tra lavoratori, sindacati e contestatori, Petri adotta un punto di vista che non ci sarebbe aspettato da lui, membro di prima fila di Lotta Continua: adotta difatti un vero e proprio distacco, finendo persino per allontanarsi dalla figura degli studenti agitatori. La sua simpatia è tutta verso i proletari, verso quei Lulù che vengono strumentalizzati dalle lotte sindacali, usati come bandiera dai contestatori, ma il cui dramma resta sempre e solo il loro.
Ne emerge una disillusione cinica persino verso la lotta violenta, verso quelle attività sovversive sessantottine che proprio nei primi anni '70 cominciavano a mostrare i loro risvolti più turpi.



















Una disillusione che si estende poi verso tutta la società civile. Da antologia il ritratto che Petri dà dell'istituzione famigliare, devastata dall'alienazione moderna, con coppie che scoppiano, famiglie allargate fatte di figli naturali che quasi non riconoscono i padri e figli putativi che per forza di cose vi si avvicinano di più.
In questa società abbruttita dal capitalismo, basata sullo sfruttamento del più debole da parte del più forte e dove ogni legame diventa irrimediabilmente freddo, l'unico valore oltre quello del guadagno è quello del consumismo. Da antologia sono anche quelle immagini, oggi fin troppo fulgide, di telespettatori ipnotizzati davanti alla luce bluastra del televisore, con la sigla del Carosello che ne richiama l'attenzione come lo squillo della tromba del padrone; e quei feticci disneyani che assediano la casa di Lulù, tra i quali il più opprimente è ovviamente Zio Paperone, maschera edulcorata del magnate menefreghista.
In uno slancio definitivo di pessimismo, Petri propone un'unica soluzione a tale inferno: la pazzia. E' il personaggio di Salvo Randone, Militina, l'unico ad aver trovato una forma di quiete; quel Paradiso che nel finale Lulù vorrebbe occupare forse è solo un manicomio, una forma di distacco definitivo, di alienazione pirandelliana dalla realtà, il fuggire dalla società per rifugiarsi in un luogo della mente dove la logica dello sfruttamento non esiste perché gli uomini non sono più in grado di produrre nulla.


















Il cinismo esasperato si traduce in una messa in scena quantomai secca. La fotografia del fido Luigi Kuveiller evita qualsiasi forma di vera spettacolarizzazione, le inquadrature sono sempre dirette, create con il fido obiettivo zoom e movimenti di macchina rapidi, restituendo una sensazione di verosimiglianza, quella del trovarsi al fianco dei lavoratori anche quando la ripresa non è ad altezza d'uomo. Se il tono è sovente sopra le righe, anche grazie alla graffiante interpretazione di Volonté, quando la scena è ambientata in fabbrica l'atmosfera è sempre realistica, in ossequio alle ataviche origini neorealistiche degli autori.
Il risultato è un ritratto tanto veritiero quanto acido, in grado davvero di portare ad una catarsi totalizzante verso l'orrore dell'umano sfruttamento e il dramma esistenziale di una classe lavorativa da sempre allo sbando.


















Quanto al lascito del film, esso è più complesso di quanto si possa pensare.
Accolto all'uscita da feroci critiche anche da parte della sinistra radicale, la quale accusava Petri di aver sbagliato nel dipingere la lotta di classe dal punto di vista del singolo anziché dell'intero proletariato (dimostrando in pratica di non aver capito una virgola di tutto il racconto, tantomeno della scrittura per immagini), La Classe Operaia va in Paradiso è stato rivalutato immediatamente anche dagli scettici, divenendo il film sul proletariato per antonomasia e ispirando decine di filmmaker negli anni successivi, primo fra tutti Ken Loach e il suo cinema impegnato d'oltremanica.
Rivisto oggi, il ritratto di un lavoratore distrutto dai meccanismo del capitalismo appare ancora più drammatico, con il recente caso di Stellantis che ha portato nuova luce sulla feroce logica dello sfruttamento, con la testimonianza di operai fisicamente devastati da orari di lavoro impossibili e letteralmente ricattati da una classe padronale pronta a rivolgersi al mercato estero pur di aumentare i già pantagruelici profitti in sfregio a tutto e a tutti.
Eppure, quelle immagini di una Italia dove i lavoratori, pur sfruttati, riuscivano ad arrivare a fine mese, a permettersi una o più famiglie e una casa, magari di proprietà, non possono che suscitare un'amara invidia verso la classe lavoratrice odierna, lasciata nel deserto di una nazione che del capitalismo ha saputo riprendere sempre e solo i dettami peggiori.

lunedì 3 febbraio 2025

Anora

di Sean Baker.

con: Mikey Madison, Yura Borisov, Mark Eydelshteyn, Karren Karagulian, Vache Tovmasyan, Paul Weissman, Lindsey Normington, Emily Weider, Luna Sofia Miranda, Vincent Radwisnky.

Usa 2024
















Il cinema di Sean Baker si è sempre mosso su due coordinate tematiche, ossia l'immaturità di molti personaggi maschili e l'artificialità dei rapporti umani. Da questo punto di vista, Anora ne è un perfetto paradigma ed è essenziale, di conseguenza, l'approvazione che ha generato e che ha portato in suo autore, dopo un quarto di secolo dal suo effettivo esordio come filmmker, all'acclamazione.
In questa sua ultima opera, le due tematiche trovano una nuova e perfetta declinazione, con in più una svolta finale in parte inattesa.



















Anora (Mikey Madison) è una giovane spogliarellista e prostituta di second'ordine. Durante una serata di lavoro incontra Ivan (Mark Eydelshteyn), figlio 21enne di un magnate russo in cerca di sesso facile. Tra i due scoppia un'intesa e, in un momento di follia, decidono di sposarsi. Per Anora sembra essere giunto il momento dell'emancipazione, ma ovviamente non tutto è come sembra.















La trama è semplice, lineare ed è praticamente quella di Pretty Woman: giovane e bella sex worker viene impalmata da un riccone innamorato. Ovviamente Baker (al pari di Ken Russell prima di lui) non crede nelle favole e la sua Pretty Woman è una storia triste dove il ricco è un povero idiota, la bella protagonista una illusa e dove forse alla fine non c'è riscatto.
Perché la dinamica tra Ani e Vanya è chiara fin dall'inizio: lei è una spiantata che crede di aver fatto il colpaccio e che forse, sotto sotto, è anche davvero innamorata di questo ragazzino viziato; lui, proprio perché è un ragazzino viziato, altro non è se non un adolescente nel corpo di un giovane adulto, un bamboccio caduto ai piedi della prima bella donna che ha incontrato e che ha sposato senza tenere conto delle ovvie conseguenze.
Il maschio è immaturo, la donna un'ingenua. Il loro è un balletto talmente tragico da sconfinare nel ridicolo, tanto che sovente il tono acido e il registro slapstick fanno capolino, pur all'interno di una messa in scena che, da tradizione del cinema indie, fa della secchezza in suo imperativo. E la loro storia non può che essere il ritratto del vuoto interiore che affligge la società moderna.















Nel mondo di Anora nulla è concreto, tutto è pura illusione. A partire, ovviamente, dal sesso. Come in molto cinema di Baker, i personaggi si muovo all'interno dell'industria del sesso, un mondo dove anche la mera soddisfazione fisica non è che una fredda transazione.
La soddisfazione e i bisogni sono immediati, urgenti, nulla dura perché nulla può durare in un mondo che si muove a velocità folle e dove tutto è subordinato ad un piacere facile, veloce quindi effimero, per questo i rapporti iniziano e finiscono nell'arco di pochissimo tempo. E se già la soddisfazione di un bisogno fisico può diventare atto impersonale, quella di un bisogno emotivo è qualcosa di inesistente poiché non esiste davvero una emotività, solo un rapporto di interesse tra persone. Dove, di conseguenza, anche la famiglia altro non è se non un agglomerato di persone accomunate dal nome o dai rapporti lavorativi, niente più.
Non per nulla, Ani viene subito accusata di aver sposato Vanya per carpirne i beni e viene rassicurata del fatto che sarà risarcita per l'accaduto. In fondo, nel XXI secolo è impensabile che una sottoproletaria possa ascendere al rango di alto borghese: Baker gioca con la giustapposizione tra il primo, sfavillante, ingresso nella villa del giovane ricco e l'ultima notte lì spesa dalla protagonista, con un risveglio in un mondo ancora più freddo e più vuoto.
Perché è un mondo freddo, quello di Anora. E lei, per forza di cose, deve essere ancora più fredda, più spietata, più agguerrita e menefreghista. Mikey Madison riesce ad incarnare alla perfezione entrambi i lati del personaggio, sia la sua forza conservatrice che quella sottile fragilità che la rende empatica.














Laddove la dinamica umana e sociale è ferma nei ruoli di sfruttatore e sfruttato e di immaturi e illusi, Baker inserisce anche una nota di speranza con il personaggio di Igor, lo sgherro con il volto da gangster di Yura Borisov.
Un uomo dall'apparenza brutale, il cui ruolo, al pari di quello dei compagni è quello di "sistemare" il casino causato da Anora, ma che alla fine è l'unico a provare vera empatia verso la ragazza. Forse è l'unico essere dotato di interiorità rimasto al mondo, che cerca di ricondurre la sfortunata protagonista verso una dimensione più umana, in un finale talmente disperato da essere indicibilmente dolce.
Ed è tale giustapposizione tra cinismo durissimo e inedita speranza verso una dimensione nuovamente umana che renda Anora un'opera riuscita. Oltre alla sua particolare struttura, divisa in due atti dove il secondo declina in modo tutto sommato fresco il delinearsi dei rapporti tra personaggi.


















Baker confeziona così un dramma che pur sguazzando nel cinismo, cinico non lo è mai davvero, riuscendo a coinvolgere in modo sincero.