martedì 11 gennaio 2022

Lamb

di Valdimar Jòhannsson.

con: Noomi Rapace, Hilmar Snaer Gudnason, Bjorn Hylnur Haraldsson, Ingvar Sigurdsson, Ester Bibi.

Islanda, Svezia, Polonia 2021

















---CONTIENE SPOILER---


Ci sono opere ermetiche, che lasciano allo spettatore un margine di manovra nell'interpretazione del racconto; ci sono opere che fanno ricorso al simbolismo per veicolare messaggi più profondi, alla metafora per meglio traghettare un significato e all'atmosfera per comunicare una sensazione, uno stato d'animo che si fa avvolgente o straniante. E poi c'è "Lamb" che rifacendosi alla tradizione di tanto cinema autoriale europeo, tenta di intessere una narrazione astratta ed ermetica per parlare di lutto, alienazione e illusione, ma riesce solo a comunicare una forma di straniamento ai limiti del parodistico, con un uso del ritmo sonnolento e senza mai riuscire davvero a creare una forma comuncativa effettiva con lo spettatore.



Esordio per Valdimar Jòhannsson, coadiuvato alla scrittura dal poeta e scrittore Sjòn, "Lamb" racconta la storia di una coppia, Maria (Noomi Rapace) e Ingvar (Hilmar Snaer Gudnason), allevatori di pecore nella remota campagna islandese, e della loro bambina, Ada, ibrido umano-ovino, che crescono come una normale bambina.




L'eco di "Eraserhead", a livello tematico, è forte, ma laddove Lynch costellava il racconto di simboli astratti, "Lamb" è un racconto lineare, ermetico per l'uso minimale dei dialoghi e degli stessi simboli. La storia parla da sola: la coppia di neo-genitori non è affetta da un disturbo psicologico, la prospettiva di Pètur, fratello di Ingvar introdotto nel secondo capitolo, getta una luce oggettiva sui fatti e Ada è davvero una creatura vivente e "mutante". Cosa vuole dunque essere "Lamb"? Questo è quello che lo spettatore è chiamato a capire in 106 minuti di immagini.




"Lamb" è una storia sull'alienazione, forse, su come una coppia che vive ai limiti del mondo reagisca alla solitudine grazie ai legami famigliari, dati sia dalla genitorialità che dal rapporto fraterno.
Ma la scena del cimitero che apre il terzo capitolo getta anche un'altra luce sulla storia. Ada era il nome di una bambina morta. L'Ada che la coppia si ritrova a crescere è così, nelle  stesse parole di Maria, un nuovo inizio, la possibilità di creare un nuovo nucleo famigliare dalle ceneri del vecchio. Ada è un sostituo, ma non un surrogato, venendo amata appieno come se fosse l'unica creatura della coppia.




Il finale, con l'ingresso in scena della creatura paterna, quello che assieme alla pecora che viene uccisa da Maria è il vero genitore di Ada, getta anche un'altra luce sulla vicenda. La natura si riprende ciò che è suo da quegli esseri umani che l'hanno sottomessa, ne hanno estirpato la vita per accrescere egoisticamente la propria, senza badare ai suoi sentimenti. L'uomo-capra, feroce e sinistro, è lo spirito di quegli animali sacrificati per la sopravvivenza umana che si riprende letteralmente una parte di se stesso, una successione, ossia un diritto alla vita che gli era stato strappato.




Se la storia bene o male funziona, è il racconto di Jòhannsson a vacillare. La regia azzecca l'atmosfera, ai limiti del folk-horror e con inserti da fiaba campestre che accrescono il fascino della storia, ma poi si perde nella contemplazione inutile della quotidianità dei personaggi, che non aggiunge nulla al narrato e anzi affossa spesso le buone intenzioni. Anzicché dare spazio allo sfondo della campagna islandese, che fa capolino giusto in qualche bella inquadratura, la regia si perde in sequenze inutili, quasi come volesse artificialmente aumentare la durata di una storia che avrebbe funzionato anche con mezz'ora di durata in meno; anzi, probabilmente avrebbe funzionato meglio.




L'attenzione dello spettatore è così inutilmente diluita e sviata su particolari inutili, come il passato rock dei personaggi o la relazione tra Maria e Pètur. Il racconto risente così di lungaggini, ma soprattutto di un compiacimento spiazzante per il ritmo lento, per la contemplazione onanistica del nulla, che nulla da e nulla trasmette. Difetti tutto sommato scusabili, dato lo stato di esordiente del regista, ma che compromettono di molto la visione.

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