di Joel Coen.
con: Denzel Washington, Frances McDormand, Alex Hassell, Bertie Carvel, Brendan Gleeson, Corey Hawkins, Harry Melling, Brian Thompson, Matt Helm, Stephen Root.
Usa 2021
Alla fine è successo: i fratelli Coen si sono divisi. Dopo circa 40 anni di carriera come collaboratori e 15 come co-registi accreditati, il duo di Minnesota è scoppiato, con Joel rimasto ad occuparsi di regia e sceneggiatura. Una cosa passeggera? Così si spera. Fatto sta che anche senza l'ausilio del fratello, il talento di Joel Coen continua a risplendere.
Per il suo "esordio" in solitaria, Joel decide di confrontarsi con l'eredità del Bardo, con quel "Macbeth" che è tra le sue opere più amate dalla Settima Arte. E decide di farlo a modo suo, trasformando quella che avrebbe potuto essere una semplice trasposizione in un atto d'amore verso tutto quel cinema che lo ha da sempre ispirato.
Il "Macbeth" altro non è che la tragedia del potere, la storia di un uomo accecato dalla vanagloria a cui un destino beffardo designa prima la grandezza, poi la rovina, distruggendone l'indole nobile. Nelle mani di Coen, la tragedia shakesperiana trova una nuova dimensione e un nuovo significato. Quella di Macbeth diviene una metafora sull'inevitabilità della morte, del destino avverso come tappa immancabile, di una disfatta che attende solo di concretizzarsi. Da qui le parole che aprono il primo e il terzo atto: "When", ossia quando la tragedia si perfezionerà, "Tomorrow", ossia quando la morte coglierà il protagonista.
Morte che è già parte del personaggio sin nella sua indole: Macbeth e la sua Lady non sono due giovani baroni, ma due nobili di mezza età, le cui rughe donano una cadenza ancora più mortifera ai dialoghi già in origine funerei.
Ma questo "Macbeth" è soprattutto un omaggio cinefilo al noir e, in generale, al cinema post-espressionista. Fotografia e scenografia si fondono per crea immagini profonde, con una ricerca della geometricità a tratti esasperante e che trova la sua forma in immagini perfette, dalla plasticità incredibile, forme rigorose che tagliano i fotogrammi in poligoni rigorosi. La forza visiva è così inusitata, imponente, rendendo una visione già memorabile ancora più penetrante.
Notevole anche l'ibridazione con il linguaggio teatrale: la ricerca della centralità porta alla trasformazione del fotogramma in un palco vero e proprio e l'alternanza tra campo e controcampo suggerisce la frontalità tra due prosceni veri e propri, aumentando il tasso di spettacolità della messa in scena.
Soprattutto, Coen riesce a non cadere nel solito giochino cinefilo fine a sé stesso. A differenza di quanto accadeva in "Miller's Crossing" e "Barton Fink", il citazionismo non è fine a sé stesso, ma sempre subordinato alla volontà di trasmettere la forza dell'adattamento. trovando così un equilibrio perfetto tra racconto e ambizione, prova di un'intensa maturità artistica.
Difficile riuscire a immaginare i Coen separati, ma già dai fotogrammi che hai postato questo film sembra un capolavoro.
RispondiEliminaSpero davvero sia una cosa momentanea e per fortuna, si, questo film in solitaria di Joel merita davvero ;)
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