con: Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Marcello Cannavale, Dante Di Pinto, Alberto Conocchia, Carlo Fermariello, Terenzio Cordova, Alberto Amato.
Italia, Francia 1963
E' ampiamente diffusa l'opinione secondo la quale un film "vecchio" che affronti le problematiche civili e politiche di un dato tempo sia inevitabilmente datato (a maggior ragione, poi, se è addirittura in bianco e nero) e la sua visione, di conseguenza, sia inutile.
E' anche per questo che alla fine della (ri)visione di "Le Mani sulla Città" ci si sente scossi nel profondo, scioccati dal fatto che problemi, vizi, scandali e vere e proprie sciagure che Rosi descriveva e ascriveva all'Italia di oltre sessant'anni fa siano ancora tranquillamente identificabili (magari anche con nome e cognome) nell'Italia odierna.
Colpa di un sistema-paese privo di direzione e di nerbo, di una popolazione che spesso idolatra i vizi e chi se ne fa portavoce, di un paese privo di vere ideologie, idee e bandiere, con un popolo sempre pronto a farsi manipolare all'occorrenza e di una classe dirigente da sempre impegnata unicamente a riempirsi le tasche a scapito di tutto e di tutti. Colpa, altresì, della persistenza del mito dell'arrivismo, che ha portato e porta tutt'oggi con sé solo brutture e ingiustizie. Tutto questo esisteva già nel 1963 e "Le Mani sulla Città" non fa che metterlo nero su bianco, in splendide immagini.
Per Rosi, dopotutto, un film del genere è poco più di un'evoluzione del precedente "Salvatore Giuliano": laddove con quest'ultimo ricostruiva il passato (allora) recente, ora volge il suo sguardo direttamente sul presente e su quei guai che attanagliano la politica e il sistema civile.
In cosa è invecchiato il film di Rosi? Sicuramente in quel discorso finale tenuto dal consigliere De Angelis, riguardante l'imminente presa di coscienza del corpo elettorale che porterà con sé lo spodestamento dei corrotti dai palazzi del potere. Rosi, ovviamente, non poteva immagine come, nel corso di pochi anni, l'anticultura prima e la fine delle ideologie poi avrebbero invece portato ad un'anestesia totale del popolo, che oggi più che mai è un puro suddito di quei centri di potere che governano la democrazia.
"Le Mani sulla Città" è in fondo null'altro che un'analisi lucida e spietata di tali centri di potere, di come essi si dimenino all''interno sia dei palazzi che nelle strade per affermare sé stessi a scapito e a prescindere dal resto.
Tutta la vicenda ruota intorno al confronto tra due figure essenziali: da un lato, Edoardo Nottola, consigliere comunale ed esponente di spicco del partito di maggioranza, nonché e soprattutto grosso imprenditore edilizio il cui business si impenna grazie agli aiuti di Stato; dall'altro il consigliere De Angelis, politico di sinistra e ingegnere civile che invece porta avanti un'inchiesta riguardante un crollo avvenuto in uno dei cantieri di Nottola, che violava tutte le norme in merito. Il primo ha il volto di un magnifico Rod Steiger americano di nascita, ma perfettamente credibile nei panni del napoletano rampante, il secondo di quel Salvo Randone vero e proprio volto cardine del cinema impegnato nostrano. Lo scontro disvela, ovviamente, tutta l'ipocrisia sottesa all'apparato politico e amministrativo.
Il tema è quello del conflitto di interesse e di come la speculazione economica (già ai tempi del Boom) abbia finito per far fagocitare la politica dalle logiche industriali. Un conflitto che, anche se non detto esplicitamente, è connaturato al sistema democratico: Nottola è un politico ruspante che aspira a diventare assessore al fine di poter aver carta bianca con la propria azienda, il sistema gli permette di scalare la politica e questa viene da lui utilizzata per puri fini speculativi. L'immoralità sottesa a tali azioni è palese e conosciuta da tutti, ma tollerata perché un grosso imprenditore porta con sé grandi batterie di voti. E a farne le spese sono le persone comuni, uccise dalla mancata osservazione delle norme di sicurezza, sfruttate come forza elettorale prima ancora che come forza lavoro e cacciata dalle case al fine di permettere alle nuove costruzioni di poter fiorire. Nottola si vende a loro come un salvatore, come un uomo del popolo che modernizza la città abbattendo le "catapecchie" che tanto squallore portano, vincendone facilmente le simpatie.
La corruzione spicciola, quella usata dai "pezzi grossi" per carpire le simpatie degli elettori viene ritratta da Rosi in una scena ancora oggi agghiacciante, quella in cui il sindaco di Napoli elargisce banconote ad un gruppo di cittadini affamati all'interno della casa comunale, esclamando come questo sia il vero cuore della democrazia.
De Angelis, di converso, è implacabile nella sua ricerca delle responsabilità e si scontra subito con il famoso "muro di gomma" di una burocrazia dove non esistono vere responsabilità, dove i danni avvengono di punto in bianco e nessuno paga per morti e feriti. L'inchiesta, tanto è vero, altro non è se non un buco nell'acqua, uno scandalo del tutto momentaneo che non sortisce effetti alcuni, se non un mutamento temporaneo nelle dinamiche di partito.
Nottola, di fatto, è costretto a cambiare alleanze, a trovare nuovi supporter per le sue speculazioni, solo per poi riappacificarsi con i referenti originari, in un girotondo dove, come sempre, tutto cambia senza che nulla cambi davvero. Non per nulla, il film si apre con la sua proposta di costruire nuove palazzine modificando il piano regolatore e si chiude con l'avvio dei lavori nello stesso sito, con il crollo già dimenticato e le fanfare pronte a fargli festa.
In tale ottica, la figura più sordida non è neanche quella dell'imprenditore arrivista e menefreghista, quanto quella del capo partito, un vecchio interessato solo a mantenere lo scranno dentro il comune, perennemente seguito da una squinzietta trattata come un animale da compagnia, immagine a dir poco profetica del politico-tipico della Seconda e Terza Repubblica.
Rosi ambienta questa storia di speculazione e scandali nella natia Napoli, scelta in realtà non scontata. Benché già all'epoca simbolo del malcostume, la città di Partenope è in realtà null'altro che un'ambientazione neutra, un mero simbolo di qualsiasi altra città italiana dell'epoca il cui volto veniva deturpato dalla riqualificazione edilizia. Non per nulla, le immagini che aprono il film potrebbero tranquillamente appartenere a Roma, Milano o Palermo, con i casermoni che spuntano come metastasi in ogni angolo, mentre le baracche della povera gente resistono come sfregi solo in apparenza peggiori, marchio di una popolazione la cui miseria viene doppiamente sfruttata.
Il suo stile di messa in scena qui si fa più secco, ai limiti del documentaristico. Non c'è la ricerca del colpo d'occhio nelle immagini, né di un'estetica pittorica, quanto la volontà di ritrarre gli eventi nel modo più naturalistico possibile (ancora più che nelle blasonate pellicole neorealiste), alla ricerca di una veridicità tale che a tratti sembra infrangere il limite della finzione per farsi puramente veritiera, incredibilmente reale.
A rivederlo oggi, "Le Mani sulla Città" fa più spavento di quanto potesse fare oltre sessant'anni fa. Espressioni come "conflitto di interessi" e "questione morale", che pur fino ad una ventina d'anni fa erano dei tormentoni nei discorsi dei politici anche di destra, ora sono sparite dal vocabolario comune. Personaggi come Nottoli hanno raggiunti i vertici supremi della politica e nessuno si scandalizza più dei famosi "inciuci" tra partiti, tantomeno di quelle Tangentopoli che a scadenza regolare vengono scoperte. Mentre ogni tre mesi un'alluvione causa un'emergenza umanitaria e abitativa e si fatica a far fronte alla ricostruzione di interi paesi, nulla si fa per un'eventuale messa in sicurezza delle abitazioni e delle città, a rischio crollo sia a causa della situazione idrogeologica della nazione che dei postumi della perenne speculazione edilizia portata avanti anche grazie ai capitali riciclati della criminalità organizzata.
Nulla è cambiato, nulla è diverso, tutto continua a svolgersi come allora. Rosi aveva messo in immagini scandali e malaffare avvertendoci di come un sistema del genere crei solo danni, ma nessuno gli ha dato ascolto, perché non interessato a porvi rimedio. E oggi, quella scritta che chiude il film appare ancora tristemente veritiera.
1963. Era parte di un'epoca nei quali cineasti, anche Uomini, che per vita vissuta, esperienza. sofferenza, potevano raccontare e girare opere con della sostanza dentro e trasmetterla a coloro, spettatori, che vi si approcciavano. Ed è triste che oggi, 2024, saranno anche presenti film di denuncia, che però restano confinati nel proprio ovile. Sia i registi che il pubblico. E a me che qualche autunno l'ho visto passare, questo, fa ancora effetto(eufemismo) come quando rivedo "Le Mani sulla Città", anche. Torno ad essere un lettore silenzioso. Grazie.
RispondiEliminaTi ringrazio per il commento, che sottoscrivo in pieno. Si è perso lo stampo non solo dei filmmaker, che riuscivano a fare film impegnati che non fossero piatti, ma anche delle persone, che vivevano l'impegno politico in modo viscerale.
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