con: Frances McDormand, David Strathairn, Charlene Swankie, Gay DeForest, Patricia Grier, Linda May, Angela Reyes, Carl R.Hughes, Douglas G.Soul.
Drammatico
Usa, Germania 2020
Il trionfo artistico di Cholé Zhao, celebrato sia a Venezia che agli Oscar, non è stato scevro da polemiche, per una volta anche comprensibili; la Zhao ha espressamente disconosciuto le sue radici cinesi per abbracciare in toto il suo status di americana acquisita, il che ha generato un contraccolpo mediatico dovuto al fatto che se lei possa girare film in America è dovuto grazie al lavoro del padre, grosso imprenditore in patria, il quale ha finanziato i suoi studi appoggiandosi sul lavoro di centinaia di lavoratori cinesi sfruttati e sottopagati. Spetti al singolo giudicare la Zhao come persona, anche perché, sul piano strettamente artistico, ella dimostra di aver compreso e assimilato in toto la tradizione recente del cinema d'autore a stelle e strisce; il che, tuttavia, non le ha permesso di comprendere appieno l'ambiguità della società americana.
"Nomadland" è in tal senso un film già visto, dove la regia usa la macchina da presa e un montaggio veloce per celebrare la vita e la visione della sua protagonista Fern, che ha il volto e il corpo di una al solito straordinaria Frances McDormand; un personaggio che fa parte dei "nuovi pionieri", quei nomadi la cui vita è stata distrutta dalla crisi economica e che si ritrovano, loro malgrado, a dover girare il paese rincorrendo il lavoro.
Ma Fern non è una semplice nomade costretta dagli eventi, quanto un vero e proprio spirito libero che non riesce a trovare quiete, persa nella necessità di muoversi in un contesto selvaggio, un'America vista davvero con gli occhi di un pioniere che si perde nei suoi spazi immensi, nei paesaggi rocciosi quasi alieni eppure incredibilmente ospitali, non poi tanto dissimili da quei luoghi di lavoro ciclopici. Che sia la gigantesca piantagione di barbabietole o il magazzino Amazon, il mondo di Fern, anche quando circoscritto, è enorme e lei ci si perde quasi in modo pànico, disperdendo sé stessa all'interno di quei paesaggi.
Il rimpianto, semmai, è verso quell'amore perduto, quel mondo cancellato il quale viene ricordato con affetto e nostalgia, ma al quale non si cerca davvero di ritornare. La nuova via è accettata, il nuovo status sociale e asociale non viene questionato ed è questo, forse, un forte limite della visione della Zhao.
Si può pensare quello che si vuole della scelta, cosciente, di non avere radici, di rinunciare ad una vita fatta di stabilità per una in costante mutamento, della sostituzione degli affetti stabili con quelli dei compagni viaggiatori che, ciclicamente, rientrano nella propria vita; ma quella di Fern è, in principio, una scelta dovuta al collasso economico, non fatta arbitrariamente (a differenza, ad esempio, di quella fatta dal Chris McCandless di "Into the Wild") e per questo, fino ad un certo punto, non libera. La Zhao non critica il sistema economico che ha trasformato la classe lavoratrice in classe nomade, nonostante in una scena tenti timidamente di criticare la speculazione edilizia, riuscendo solo a statuire ovvietà; persino la descrizione del lavoro presso Amazon ignora volontariamente le mostruose condizioni lavorative fortemente ostracizzate dagli stessi dipendenti. Che si ricerchi una forma di coerenza con le proprie origini? Forse è così, forse la Zhao altro non è che la fortunata figlia di uno dei migliori esponenti del sistema capitalistico odierno, non cosciente dei sacrifici che esso chiede a chi si trova più in basso.
La sua elegia, di conseguenza, per quanto sentita e riuscita, lascia un po' perplessi, non tanto perché non critica il sistema che chiama in causa, quanto perché decide di dipingerlo in modo quasi benigno, occultandone le distorsioni per abbellirne le condizioni, in modo pressoché ipocrita. E spiace davvero che in una pellicola così riuscita si sia deciso volontariamente di evitare gli estremi più scomodi della moderna vita nomade americana in favore di un falso buonismo.
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