di Isao Takahata.
Animazione
Giappone 1994
Le due forze trainanti dello Studio Ghibli sono stati i due fondatori, ossia Isao Takahata e Hayao Miyazaki, due autori la cui indole è diversa e persino la relativa formazione ha diversi punti dissonanti. Takahata, in particolare, era famoso come "il regista che non sapeva disegnare" poiché quando ha iniziato la sua carriera presso la Toei faceva parte di quel gruppo di maestranze che non avevano bisogno di una formazione artistica nel campo del disegno o dell'animazione per poter lavorare.
La filmografia dei due, di conseguenza, è ampiamente dissimile, ma quando si tratta di Pom Poko le differenze effettive si contano sulle dita di una mano. In primis poiché lo stesso Miyazaki ha prestato i propri sforzi direttamente nella lavorazione, in secondo luogo e soprattutto perché la tematica ambientalista ricorda molti lavori del blasonato regista.
Ma alla fine Pom Poko resta al 100% figlio della visione artistica di Takahata e la sua riscoperta è utile a comprendere pienamente la poetica di un autore che forse tutt'oggi resta troppo nell'ombra del collega e koai.
I tanuki sono creature del folklore giapponese, simili a cani o ai comuni procioni. I tanuki dei dintorni di Tokyo, in particolare, da decenni oramai vivono come semplici animali, quando in realtà sono dotati di poteri che permettono loro di mutare forma a piacimento. Divisi in tribù, cessano le lotte intestine per fare fronte unico contro un nemico comune: l'essere umano. A causa dell'espansione dell'area residenziale, la costruzione di un new town minaccia l'habitat delle creature, che contrattaccano con vere e proprie azioni di guerriglia.
Pom Poko è essenzialmente la storia di una comunità agreste che si ribella alla cementificazione del territorio, il tutto raccontato con piglio marxista in una narrazione alla Ėjzenštejn dove la forza motrice del racconto non è il singolo, ma l'intera enclave di personaggi.
Ogni singolo tanuki rappresenta un possibile approccio rivoluzionario nella lotta al potere. Il più radicale è quello del guerriero Gonta, braccio armato che si da anche alla guerriglia pur di scacciare gli invasori. Ma quello più vicino alla sensibilità di Takahata sembra essere il giovane Shoukichi, il quale fa della burla la sua arma.
La vera arma, in tal senso, è data dalla superstizione. I tanuki fanno leva sulla paura che l'uomo ha dell'ignoto, in particolare del castigo divino, inscenando una serie di interventi sovrannaturali e persino ricreando alcune leggende metropolitane nipponiche. Lo scontro tra natura e civiltà assume così anche i contorni di una rivincita della spiritualità sommersa dalla razionalità del cemento e del ferro.
Lo scontro tra tradizione e modernità è narrato con un tono diverso da quello drammatico e sanguigno che Miyazaki ha nelle sue opere, configurandosi invece come quello proprio di una forma di amarissima accettazione. Il Giappone, per sopravvivere, ha dovuto trasformarsi, perdere la sua natura e la sua fisionomia per divenire altro, pur restando in fondo lo stesso. Allo stesso modo Takahata ritrae questi tanuki che finiscono per diventare sempre più umani fino a trasfigurarsi totalmente, arrivando persino a comprendere la forza di quei nemici costretti ad una vita di sacrifici, abbracciando loro stessi tale vita, ma restando in fondo fedeli alla propria natura primigenea, come nel ballo finale.
Il periodo storico in cui il film è ambientato è di fatto chiarificatore, ossia gli anni '60, quando la macchina industriale nipponica era in piena espansione, la crisi del Secondo Dopoguerra era stata superata e l'intero paese si avviava verso una fase di prosperità, la quale avrebbe portato alla fine di ogni tradizione. I tanuki finiscono per rappresentare tale tradizione, sia essa quella dell'economia di stampo agricolo che quella della religione shintoista e buddista, abbandonata in funzione di una secolarizzazione totale dei costumi. Non per nulla, utilizzano per l'appunto la superstizione religiosa come arma per scacciare gli umani e spesso i personaggi si lamentano di come in passato venissero adorati come divinità da fedeli ora dimentichi.
Pur tuttavia, Pom Poko (il titolo fa riferimento al calendario dei tanuki) non si concentra totalmente sulla storicità dell'ambientazione, portando in scena anche situazioni moderne; Takahata crea così un ponte tra passato e presente dato dall'uso di immagini della tv a colori e videogame moderni per l'epoca, riuscendo a dare un tocco di universalità alla storia e alla tematica, di fatto pressante nel Giappone degli anni '90 (e oltre) così come in quello degli anni '60.
L'animazione, come da tradizione dello Studio Ghibli, è curata sin nei minimi dettagli e le singole sequenze non mancano mai di stupire, con la cura che si estende anche alle inquadrature più semplici. Ovviamente è la lunga processione degli yokai a stupire per inventiva e perizia tecnica, ma la mano di Takahata e dei colleghi si avvisa in realtà soprattutto nelle singole inquadrature di massa, dove ogni singolo personaggio è intento a compiere un'azione diversa animata in modo certosino, senza che siano usati stratagemmi come animazioni in loop o immagini statiche.
Pom Poko è così un piccolo capolavoro di animazione classica, che affronta con intelligenza una tematica sempre attuale raccontandola con piglio originale e una perizia tecnica ancora oggi invidiabile. Un esempio di grande cinema solo in apparenza infantile.
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