con: Cate Blanchett, Noémie Merlant, Nina Hoss, Sophie Kauer, Sydney Lemmon, Sylva Flote, Julian Glover, Zetphan Smith-Gneist, Adam Gopnik, Jessica Hansen, Mark Strong.
Drammatico
Usa 2022
La carriera di Todd Field è alquanto strana. Inizia come attore e arriva persino a collaborare con Kubrick, interpretando il pianista in "Eyes Wide Shut", solo per poi virare verso la regia, dirigendo l'acclamato "In the Bedroom" nel 2001 e l'ancora più acclamato "Little Children" nel 2006.
Ed è da qui che la sua filmografia praticamente si ferma. Resta lontano dalla macchina da presa per praticamente quindici anni, allo scadere dei quali torna alla regia con "Tàr", dramma umano che trova l'estimatore supremo in Martin Scorsese e fa strage di nomination e riconoscimenti effettivi. Malauguratamente, questo suo ennesimo trionfo è un film alquanto controverso, arroccato in una forma sbruffonescamente elegante e ricercata che però cela un racconto debole che distrugge ogni possibile interesse verso una storia attuale e urgente.
Lydia Tàr (la Blanchett) è la compositrice e conduttrice d'orchestra più acclamata di sempre. Ricopre un ruolo solitamente associato ad una figura maschile, ma questo non le ha impedito di affermarsi e, proprio come farebbe un uomo, usa il suo potere e la sua influenza in modo irresponsabile per ottenere il piacere, coartando giovani donne in cambio di fama e fortuna. O forse no, forse è solo vittima di un'epoca storica nella quale qualsiasi comportamento anche solo marginalmente lascivo viene etichettato come tossico.
E' su tale dicotomia che Field pone il suo sguardo. O, meglio, sull'impossibilità di discernere una linea di discrimine tra una condotta effettivamente egoistica ed una mera percezione della stessa, acuita dal fervore puritano proprio dell'era dei social network.
Ogni cattiva condotta viene solo suggerita, spesso lasciata fuori scena; quando invece la regia decide di mostrare qualcosa, lo fa solo affinché si possa comprendere come questa realtà possa essere distorta ad hoc, come in una delle prime scene, un piano sequenza nel quale Lydia tenta di insegnare ad un allievo l'importanza di non farsi ingabbiare nei preconcetti di razza, religione, ideologia e orientamento sessuale, solo per poi vedere questo discorso rimontato (similmente a quanto suggeriva Romero in "Diary of the Dead") per trasformare la protagonista in una razzista convinta.
Di fatto, la vediamo mostrare interesse verso le giovani musiciste e tentare di imbastire una relazione extraconiugale con la giovane e talentuosa Olga (Sophie Kauer), ma molti dei suoi comportamenti riprovevoli vengono solo discussi tramite accuse su fatti mai mostrati, accentuando la sensazione di come questa sua condotta sia si riprovevole, ma mai davvero illecita.
Ma Field è indeciso se imbastire questa vicenda come un thriller psicologico o un dramma puro e nel dubbio fonde i due registri per creare una narrazione che, tanto inspiegabilmente quanto fatalmente, si rivela debolissima. Si resta affascinati dalla storia di Lydia e dalla tela di ragno nella quale resta suo malgrado invischiata, ma il racconto è claudicante, chiuso in una serie di scene prive di mordente che raggiungono il limite del ridicolo negli inserti onirici.
L'atmosfera fredda, che ben avrebbe dovuto conciliarsi con la storia, si rivela invece un difetto, impedendo agli eventi di coinvolgere e ogni pretesa di tensione, drammatica ed emotiva, finisce così per cadere a vuoto, in un andirivieni di cattiverie volte a creare la solita spirale distruttiva che cinge una protagonista la quale finisce la sua storia nel modo più ovvio possibile, con una seconda parte che altro non è se non un parata di luoghi comuni assortiti che vanno dalla paranoia alla pazzia vera e propria, sino alla definitiva, inevitabile, caduta in disgrazia. Ed era dai tempi della débacle polanskiana di "Quello che non so di Lei" che non si vedeva un thriller dal fiato così corto.
Sul dramma umano e sui risvolti psicologici, a Filed sembra interessare più perdersi nella contemplazione del lusso degli interni, degli abiti ricercati, della musica sinfonica in ambienti glamour glaciali. Non per nulla apre le danze nel modo peggiore possibile, ossia con un'intervista dove vita, morte e miracoli della protagonista vengono gettati in faccia al pubblico nel modo più didascalico possibile mentre la vediamo provarsi abiti di alta sartoria, in quello che è il trionfo totale e definitivo di un cinema "borghese" interessato solo all'eleganza ostentata, al lusso urlato, alla bellezza materiale spicciola; un'estetica che vuole essere ricercata, ma che finisce solo per essere cafona.
Cosa è quindi alla fine "Tàr"? Da una parte, uno studio psicologico inerte che si masturba sulla sua stessa forma, dall'altra una sorta di thriller piatto e ovvio che non coinvolge mai; in parole povere, un film insipido e compiaciuto, il cui unico motivo di interesse potrebbe essere la sola performance di una al solito ottima Cate Blanchett; ma 158 minuti di nulla sono un prezzo troppo alto da pagare per avere l'ennesima conferma del suo talento.
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