di Ari Aster.
con: Joaquin Phoenix, Patti LuPone, Armen Nahapetian, Amy Ryan, Nathan Lane, Kylie Rogers, Denis Ménochet, Parker Posey, Stephen McKinley Henderson, Julia Antonelli, Bill Hader.
Stati Uniti, Canada, Finlandia 2023
---CONTIENE SPOILER---
Con appena due lungometraggi all'attivo, Ari Aster è entrato di forza tra gli autori più noti e amati degli ultimi anni; questo grazie all'ottima accoglienza riservata a "Hereditary" e "Midsommar" non solo (e forse soprattutto) da parte del pubblico generalista, che gli ha permesso di imporsi come autore anche al di là del "genere" horror, anche a causa del suo approccio "eleveted" al genere.
"Beau ha Paura" diventa così il banco di prova per Aster che per la prima volta abbandona quasi del tutto il cinema del terrore per dedicarsi a qualcosa di totalmente libero; una storia ripresa da uno dei suoi primi cortometraggi, qui espansa a 180 minuti circa e con protagonista un Joaquin Phoenix al solito impagabile; e facendo ricorso all'ambiguità narrativa associata a simbolismi freudiani, crea un'opera riuscita e di sicuro fascino.
Beau (Phoenix) è ipocondriaco e paranoico. Vive arroccato in un appartamentino in un pessimo quartiere, in un mondo popolato quasi esclusivamente da figure ostili. Ma di punto in bianco, questa sua precaria falsa sicurezza crolla alla notizia della morte della madre; il che lo costringe ad uscire di casa per recarsi al suo funerale... cosa più semplice a dirsi che a farsi.
Ma chi è davvero Beau, in cosa consiste davvero il suo trauma e cosa rappresenta davvero il suo viaggio?
Le chiavi di lettura che Aster suggerisce sono almeno tre.
La prima, più diretta, è che Beau sia un semplice uomo schiacciato da una figura materna mostruosa, con chiari e diretti riferimenti a "Hereditary". Un uomo per il quale la famiglia è un covo di mostri, che si ritrova a confrontarsi con paure eteroindotte e un senso di colpa inseritogli a forza da un super-io volitivo.
Prima ancora che la madre, è il nucleo famigliare a rappresentare una prigione. La famiglia che lo accoglie nel secondo troncone narrativo è in apparenza perfetta, ma racchiude in sé i germi di una mostruosità mal sopita. Quello più ovvio, è l'invida della "sorellina", un mostriciattolo bisognoso di attenzioni che arriva a uccidersi pur di distruggere Beau. Ma ancora più raccapricciante è il padre (un ritrovato e smagliante Nathan Lane), unica vera figura paterna mostrata esplicitamente nel film, che tiene gli altri membri prigionieri in una gabbia di vetro dalla quale fuggire è impossibile.
Beau è anche un essere asessuato, un maschio evirato da una madre che ne ha condizionato la crescita sessuale per non perderlo, per non doverlo condividere con altre donne. Il che avviene in modo indiretto, prima spronandolo ad avviare una relazione con Elaine solo per poi disvelare come lo abbia condizionato facendogli credere che sarebbe morto al primo rapporto sessuale
Beau è quindi un oggetto da possedere, un essere chiamato solo a servire come serbatoio di affetto verso la genitrice, al quale ogni forma di individualità viene negata. Il mostro-fallo chiuso in soffitta, identificato come il "padre", diventa così una sessualità annientata, escussa dalla mente come dal corpo, la quale solo intervenendo in modo diretto può salvarlo dalla distruzione che la famiglia gli ha sguinzagliato contro. L'emancipazione del figlio passa necessariamente tramite la maturazione del corpo, tramite l'abbraccio totale della sua funzione generatrice.
La madre, nel contesto, è una creatura meschina, crudele, una donna che vuole carpire tutto l'amore del pargolo senza lasciare lui nulla. Il figlio, così, è chiuso in un mondo dove tutto è ostile, dove il "di fuori" è infestato di esseri crudeli e talvolta deformi.
Beau, è questa è una seconda possibile chiave di lettura, ancorata a doppio filo con la prima, prigioniero da sempre in una soffitta, nel quale il fratello/figlio altro non è se non un suo riflesso; il fratello maggiore evocato nella famiglia "adottiva", così come la sorella minore battezzata con un nome maschile ben potrebbero essere suoi germani morti, evento che ha scatenato la gelosia materna, riducendolo ad un uomo che non ha mai conosciuto il mondo esterno, se non per un brevissimo periodo durante l'infanzia e la cui unica relazione è quella con la madre (di fatto, sia lei che la giovane Elaine, oltre che la ragazza del bosco sono sempre vestite di verde) che lo ha castrato in modo totale.
In entrambi i piani di lettura, Beau vive e muore di sensi di colpa, quelli creati dal rapporto disfunzionale, ambiguo e ambivalente con la genitrice, il cui amore è vita e morte, la cui sicurezza (vista anche come mestiere) è salvezza e distruzione. La paura, di conseguenza, non è solo quella verso un mondo ostile, verso una sessualità mostruosa o verso sé stessi, quanto e soprattutto verso una tale figura, principio e fine di tutto.
Tant'è che il simbolo di morte più usato è l'acqua, la "madre universale", il liquido amniotico della terra da cui ogni forma di vita è stata e viene tutt'ora generata: principio e conclusione finiscono, in senso lato, per coincidere.
Non per nulla, il film si chiude come si apre all'interno di un utero, con un ritorno nel ventre materno che quasi testimonia l'impossibilità di fuggirne. E quelle ultime parole pronunciate dalla madre, sui titoli di coda, aprono ad una terza, più libera, interpretazione: Beau potrebbe non essere sopravvissuto al parto, morto poche ore dopo la nascita e la sua storia altro non sarebbe che un parto delle paura di una madre, costruite per dar forma al dolore della prematura separazione.
La sua agilità nel muoversi di un racconto di tre ore è avvertibile in ogni scena, quasi nessuna delle quali alla fine risulta superflua o inutilmente lunga. A parte, forse, la digressione animata, che non aggiunge molto al resto, ma non risulta davvero fuori luogo.
Il suo stile si fa qui ancora più solido: ogni movimento di macchina è preciso e incasellato in un montaggio meticoloso. Abusa volontariamente la carrellata laterale così come quella frontale, usando la macchina da presa per avvicinarsi poco alla volta al suo protagonista sia per creare tensione che per sottolinearne lo stato emotivo; con la conseguenza che lo stile visivo e qui più dinamico rispetto ai suoi due film precedenti.
Più che una conferma, "Beau ha Paura" è una evoluzione dello stile e delle tematiche proprie del cinema di Aster. La conferma, semmai, è quella del suo talento e di come la sua fama sia davvero meritata.
Onestamente credo che questo sia il suo miglior film, nonostante "Midsommar" sia uno dei miei film preferiti degli anni passati.
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