lunedì 15 maggio 2023

Le lacrime amare di Petra Von Kant

Die bitteren Tränen der Petra von Kant

di Rainer Werner Fassbinder.

con: Margit Carstensen, Hanna Schygulla, Katrin Schaake, Eva Mattes, Gisela Fackeldey, Irm Hermann.

Germania Ovest 1972















---CONTIENE SPOILER---

"Io non sono misogino. E' che prendo le donne sul serio". Così rispondeva Rainer Werner Fassbinder quando gli si chiedeva di commentare le accuse di misoginia che sovente gli erano rivolte. E la sola esistenza di accuse del genere risulta più scandalosa di tutti i suoi film messi insieme; questo perché, proprio come lui sottolineava, dipingeva le donne come personaggi a tutto tondo, come persone con propri pensieri e priorità che non vivono in funzione del maschio, salvo ovviamente quando la tematica della sua opera non ruota intorno ad una relazione amorosa.
Di donne, Fassbinder ne ha raccontate tante nel corso della sua breve ma incisiva filmografia, come Maria Braun o Lili Marleen, giusto per citarne un paio. E dopo la Braun, quella più rappresentativa del suo cinema resta forse Petra Von Kant, le cui lacrime amare sono state l'oggetto di uno dei suoi primi melodrammi con protagonista femminile.



Petra Von Kant (Margit Carstensen) è una designer di moda sull'orlo della piena realizzazione, la cui vita viene sconvolta dall'incontro con la giovane e bella Karin (Hanna Schygulla), da poco tornata in Germania e in cerca di un lavoro.
Fassbinder si focalizza totalmente sul personaggio della Von Kant, centro nevralgico di tutta la narrazione, la quale viene cucita addosso a lei e agli interpreti degli altri personaggi, portatori delle relazioni sentimentali che la muovono; e per una volta, sono tutte donne, tanto che l'unico uomo che appare in scena è lo stesso regista e solo in un cameo all'interno di una fotografia.




Della donna, Fassbinder ritrae la caduta in disgrazia e la presa di coscienza del suo male; una parabola discendente che passa per l'autodistruzione ricercata e desiderata ardentemente, ma che non si realizza mai davvero. Tanto che alla fine, Petra resta in uno stato sospeso, non morta, ma neanche viva, sopravvissuta all'ennesima distruzione sentimentale e dotata di una rinnovata coscienza, la quale potrebbe anche solo in teoria causarne una maturazione umana.




Con piglio teatrale, Fassbinder struttura lo script in cinque scene, tutte ambientate nella camera da letto della protagonista e tutte basate sui dialoghi di questa con altri personaggi. Lo stampo è reminiscente dell'allora già defunto Action-Theatre, ma ovviamente la messa in scena fa dei movimenti di macchina e dei primi piani i suoi punti di forza.
Nella costruzione del dramma, Petra è la donna emancipata e in teoria forte, sopravvissuta ad una relazione non proprio idilliaca con un ex marito dal quale ha avuto la giovane figlia Gabriele (Eva Mattes), finita a causa della mancanza di passione, del disgusto che lei provava per quest'uomo privo di vero fascino, oltre che possessivo e spaventato dal suo successo.
La prima relazione sviscerata è quella con l'amica Sidonie (Katrin Schaake), anch'ella donna di successo, la quale riesce tuttavia ad intessere una buona relazione umana e sentimentale con un uomo; questi è all'inizio una confidente, un'amica nel senso comune del termine, una donna con la quale la protagonista può confidarsi. E che la introduce all'altro polo della narrazione, ossia Karin.




Personaggio ambiguo, che cambia anima tra la seconda e la terza scena, Karin è l'oggetto del desiderio; il quale, come da tradizione fassbinderiana, deve essere posseduto.
Inizialmente è una ragazza fragile, alla ricerca di un posto nel mondo, reduce da un dramma personale indelebile (il padre ha ucciso la madre) e impantanata in un matrimonio ai limiti del fasullo, con il coniuge rimasto in Australia. Petra ne rimane folgorata dalla bellezza, ovviamente, ma anche dal suo stato di essere umano in stato di bisogno, del quale può approfittarsi, concupire per sottomettere in una relazione praticamente univoca nella quale lei è il punto forte, Karin un semplice oggetto.




Nella terza scena la passione tra le due donne è sfumata: Karin è divenuta insofferente, mentre Petra è scivolata nella pazzia d'amore, con una dinamica opposta a quella precedente. La protagonista perde il suo ruolo di dominatrice e si fa dominata, sottomessa ad un amore oramai non corrisposto in una relazione che persiste solo come forma di affermazione individuale, oltre che di sfruttamento materiale, come avverrà in un altro celebre dramma fassbinderiano, ossia "Il Diritto del più forte" , nel 1975.
Petra Von Kant diviene così una donna distrutta, una "vittima dell'amore" che rifugge ogni confronto con la figura materna e con la figlia. E persino Sidonie cambia ruolo, divenendo una sorta di nemesi, una donna ora con un titolo sulle spalle, felicemente sposata, la quale le regala una bambola, uno stimolo a crearsi una famiglia sotto forma di sfottò, in una inversione del simbolismo ferreriano secondo il quale la paternità dà dignità al maschio.
Il simbolo del simulacro, d'altro canto, è costante per tutto il film, con i manichini che divengono di volta in volta uno specchio deformato dei personaggi, a rifletterne la vacuità interiore, il loro inscenare rapporti umani forzati, i quali seguono un percorso prestabilito poiché asserviti a emozioni e sensazioni irrazionali e che per questo li rendono schiavi.




Se il ruolo di Petra è di carnefice e vittima, questo non si sostanzia unicamente verso Karin, ma anche e soprattutto verso quello che è il personaggio più tragico di tutto il dramma, ossia la "serva" Marlene (Hirm Hermann).
Un personaggio che attraversa il film restando sempre in religioso silenzio, che non protesta contro gli insulti della "padrona", sfruttato sia lavorativamente che sentimentalmente, Marlene è masochista, un essere che prova piacere nell'essere sottomesso e umiliato, che concepisce l'amore unicamente come abnegazione totale del proprio io. Ed è alle "Marlene di tutto il mondo" che Fassbinder dedica il suo dramma.
Proprio la conoscenza dello status emotivo di questo personaggio rende il finale ambiguo, con quella riconciliazione che ne causa l'allontamento, forse il suicidio; se per Petra forse c'è una speranza di miglioramento, per Marlene forse c'è solo la tragedia definitiva, la fine di una relazione che era tutto proprio perché realizzava pienamente il suo ideale (pur distorto) di affetto.



La costruzione melodrammatica è al solito sfolgorante. La vicenda è immersa in colori caldi, i classici di stampo sirkiano tanto cari a Fassbinder, mentre il suo occhio si muove sinuoso tra i volti e i corpi dei personaggi. La ricercatezza delle inquadrature è magnifica e trova un apice nella profondità di alcune immagini.
Tanto che la costruzione teatrale della scrittura è l'unico vero limite di "Le lacrime amare di Petra Von Kant", che rende la vicenda giustamente claustrofobica, ma sin troppo ancorata ai dialoghi. Difetto veniale, tanto che questo melò resterà per sempre uno dei più riusciti del grande autore tedesco.

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