venerdì 5 maggio 2023

Il Sol dell'Avvenire

di Nanni Moretti.

con: Nanni Moretti, Margherita Buy, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Mathieu Amalric, Valentina Romani, Flavio Furno, Zsolt Anger, Jerzy Sthur, Teco Celio.

Italia, Francia 2023














---CONTIENE SPOILER---

Chissà se "Il Sol dell'Avvenire" finirà davvero per rappresentare il congedo di Nanni Moretti dal cinema, come quella sfilata finale di volti storici della sua filmografia lascia presagire nell'epilogo.
Forse il buon Nanni si è stancato, forse non ha davvero niente più da dire, forse non ha più voglia di rappresentare umori e malumori della società contemporanea (ma anche una trentina d'anni fa sembrava non averne più di tanto). Forse, visto che con lui nulla è mai certo, tutto cambia dalla sera alla mattina, come il suo umore, in un continuo girotondo.
Fatto sta che questa sua ultima fatica è al solito un film morettiano al 100%, che fortunatamente lava via il sudiciume lasciato dal pessimo "Tre Piani" e per paradosso puro finisce per essere il suo film più curato sul piano stilistico-estetico.




I piani narrativi, come al solito, si intersecano e intercalano a vicenda: Giovanni (Moretti) è un regista di lungo corso, sposato con la produttrice Paola (Margherita Buy), e alle prese con la produzione di un film che tratta del recepimento della notizia dell'invasione dell'Ungheria da parte dell'Unione Sovietica del 1956 da una sezione del PCI italiana guidata da Silvio (Silvio Orlando), volenteroso leader comunista. Nel mentre, il produttore del film Pierre (Mathieu Almaric) sembra avere qualche segreto da nascondere e nella mente dell'ormai attempato regista cominciano a tornare i ricordi dell'inizio della relazione con la moglie, ora in crisi.




Il tutto è ovviamente un pretesto per permettere a Moretti di dissertare sul cinema, la politica, la politica nel e del cinema, oltre che del rapporto di coppia. Il suo tono e come sempre quello di un papa che parla ex cathedra, non ammette dubbi, non ammette eccezioni, né ripensamenti, al pari di quel dittatore la cui effige stralcia perché, letteralmente, nel suo film i comunisti italiani non veneravano Stalin. E le sue posizioni, nuovamente, sono talvolta a dir poco questionabili.




La più fastidiosa è questa volta affidata ad una polemica sulla rappresentazione della violenza nel cinema. Moretti punta il dito contro i giovani filmmaker italiani, a suo dire troppo affascinati dalla crudezza grafica; ridicolizza quelle giovani leve che sgomitando e combattendo con le unghie e con i denti cercano di riportare in auge il genere in Italia, pontificando su come la violenza deve essere rappresentata sempre e comunque sul modello di quanto fatto da Kieslowski ne "Il Decalogo". Chiama persino in causa Martin Scorsese e il Coppola di "Apocalypse Now", senza rendersi conto di come paragonare la violenza pulp dei cineasti alla Tarantino a quella mostrata dal grande autore polacco è come lamentarsi con John Landis perché il suo umorismo è diverso da quello di Ernst Lubitsch. Ma Moretti è Moretti, è colui che si divertiva a stroncare le opere di David Lynch e John McNaughton (oltre che di Kathryn Biegelow) perché non incontravano il suo totalizzante gusto personale, quindi forse non si rende neanche conto di scambiare fischi per fiaschi.
Quel che urta di più di quella lunga e sfiancante sequenza è però altro, ossia il ricorso che fa all'autoironia; mai come ora il suo gioco è chiaro, ossia ridicolizzarsi non per sottolineare l'assurdità delle sue posizione, cosa che può sembrare ad un'analisi superficiale del discorso, quanto per prevenire eventuali contestazioni, contro le quali potrebbe ben rispondere che si trattava di ironia, appunto. Peccato però che il suo monologo sia incorniciato in un serissimo primo piano e che la sequenza si chiuda con una sua triste passeggiata con la quale si allontana da un cinema che non comprende e che non riconosce più. Forse perché non ha mai conosciuto, tantomeno compreso per davvero.



La furia del Moretti contro lo stato del cinema si rivolge poi a Netflix e alla mercificazione dell'arte. Dimostrando nuovamente di vivere in un mondo tutto suo. Perché se è assolutamente vero che la cultura dello streaming ha influenzato negativamente la produzione e distribuzione filmica, il buon Nanni punta invece il dito sulle ingerenze che la grande N avrebbe verso i suoi autori. Dimostrando di non aver visto l'ultimo film del citato Scorsese, né quello di Iñàrritu, o di Fincher, Sorrentino o Cuaròn, solo per citarne alcuni.
Per lo meno guarda con amore verso la Corea, vista come ultimo baluardo del cinema d'autore... verità come al solito incompleta e relativa venduta come assoluta e inconfutabile.




Dei tre livelli narrativi, la storia di Giovanni è, come da copione, la più completa. Del "film nel film" vediamo solo singole scene, le quali non riescono a comunicare nulla di davvero concreto, non le contraddizioni del PCI negli anni d'oro (cosa che pur riusciva bene a Moretti quando anche il suo cinema era negli anni d'oro), non l'incapacità dei comunisti di distaccarsi dalla morale borghese predominante, nulla.
Ancora peggio è la traccia narrativa riguardante la crisi di coppia, che, pur introdotta a dovere, viene letteralmente abbandonata di punto in bianco, non si sa per quale motivo. E allo stesso modo, i flashback risultano posticci, non aggiungendo nulla al racconto, benché il modo in cui Giovanni diriga se stesso nel passato, come l'attore della sua medesima vita, è sicuramente un'immagine simpatica.



E poi c'è quel finale, già divenuto celebre e che forse sostituirà nell'immaginario collettivo come finale morettiano DOC anche quelli di "Palombella Rossa" e "Il Caimano"; una chiusa che risulta ironica soprattutto perché smaccatamente "tarantiniana", con un autore che riscrive la storia per celebrare la forza del cinema. Ovviamente a Moretti non interessa più di tanto il trionfo della storia sulla Storia, interessa più che altro statuire la sua posizione di deus ex machina definitivo, far trionfare il suo narcisismo su tutto e tutti. E in un certo senso va anche bene così.



Perché ne "Il Sol dell'Avvenire", per la prima volta dopo anni (forse decenni) esiste una dimensione del Moretti-pensiero per una volta totalmente e incondizionabilmente condivisibile, ossia il rigetto della morte, il rifiuto della fine, la repulsione per la sconfitta, per quella disfatta che invece in passato il buon Nanni guardava quasi con orgoglio e invidia. La morte viene schivata e schifata, ad essa si preferisce la fantasia, il trionfo dell'arte su tutto e su tutti. Preferenza accordata sempre in base al principio di egocentrismo, certo, ma che trasmette una forza d'animo insperata e rinfrescante, al giorno d'oggi. E che si sposa bene con un'altra novità nel cinema di Moretti, ossia un'inedita cura estetica.



Non si era davvero mai visto un film di Moretti con tanti movimenti di macchina, usati persino nei primi piani, o con un montaggio funzionale ma buono, con delle inquadrature per una volta ricercate e non buttate a caso e con una fotografia che inaspettatamente non tende a piallare i volti dei personaggi, arrivando a dare diverse gradazioni di luce tra questi e lo sfondo. Non è dato sapere, ovviamente, quanto ciò sia dovuto ad una scelta consapevole dell'autore e quanto sia invece dovuto al mestiere del direttore della fotografia Michele Attanasio, collaboratore di Mainetti per "Freaks Out" e incredibilmente dello stesso Moretti per l'ingardabile film precedente.



Che il "Sol dell'Avvenire" sia dunque l'ultima opera di Moretti?
Tutto fa presagire in questo senso. Oltre la sfilata finale, tornano infatti tutti quei feticci divenuti famosi nel suo cinema: la coperta con una fantasia come quella di "Sogni d'Oro", i sabot e le pantofole da "Bianca", il film sul nuoto da "Palombella Rossa", le strade di Roma percorse su due ruote come in "Caro Diario", con la sola differenza che l'iconica vespa bianca è qui sostituita da uno squallido monopattino in omaggio ai tempi che corrono, oltre che l'attore famoso impegnato in un ruolo marginale e ironico, qui Mathieu Amalric al posto del John Turturro di "Mia Madre"; persino la vergognosa esperienza para-politica dei girotondi trova una (pur blanda) rappresentazione
Come finale di carriera non sarebbe neanche male, con il suo mix di pedanteria d'artista e piacevole innovazione stilistica. Ma sarebbe triste se Moretti si ritirasse davvero: benché il suo cinema da troppo tempo sia un vuoto esercizio di egocentrismo impazzito, sentire la sua voce è in un certo senso sempre interessante, non per altro per capire, per contrasto, cosa un intellettuale dovrebbe fare. E in questo, il buon Nanni è sempre riuscito a farci riflettere.

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