con: Matthew Modine, R.Lee Hermey, Vincent D'Onofrio, Arliss Howard, Adam Baldwin, Ngoc Le, Kevyn Major Howard, Dorian Harewood, Kieron Jecchinis, Ed O'Ross, John Stafford, Papillon Soo.
Guerra
Regno Unito, Usa 1987
Nella prima metà degli anni '80, quando inizia la produzione di Full Metal Jacket, Stanley Kubrick si ritrova in una situazione artistica e lavorativa particolare. I flop, del tutto immeritati, di Barry Lyndon e Shining lo hanno portato a ridimensionare (anche solo in parte) la grandiosità delle visioni, ma è riuscito lo stesso a mantenere la totale libertà creativa e soprattutto il rapporto di fiducia che lo lega da anni alla Warner bros., la quale continua a supportarlo nelle sue produzioni.
La decisione di creare una nuova visione bellica appare però strana a chi lo circonda; dopotutto, con Orizzonti di Gloria, nel 1957, aveva creato una delle rappresentazioni belliche più perfette che si fossero mai viste. Decisione che aveva la sua ragione d'essere in un motivo in realtà alquanto scontato, ossia come il "mestiere della guerra" e l'esperienza bellica fossero cambiati negli anni immediatamente successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale.
La volontà di ritrarre quell'incredibile tragedia americana che fu la Guerra in Vietnam, poi, aveva anche un motivo di stretta attualità, visto che il successo di pellicole quali, Rambo, Il Cacciatore e Apocalypse Now aveva portato la società americana tutta a riflettere sul lasciato di quella che fu presto definita come "La Sporca Guerra".
Per creare il suo ritratto, Kubrick si rifà in primis al romanzo The Short Timers di Gustav Hasford, autobiografia nella quale lo scrittore rielabora la sua esperienza di corrispondente al fronte durante l'offensiva del Tet nel 1968. Per l'effettiva stesura della sceneggiatura chiama invece Michael Herr, all'epoca famosa per aver revisionato il copione proprio di Apocalypse Now, ma anch'egli reduce di guerra e autore di quel Dispacci che tutt'oggi è considerato come una delle testimonianze più veritiere sul Vietnam.
Le riprese di Full Metal Jacket iniziano così nel 1984, ma il film esce in sala solo nel 1987. Nel frattempo, parte dell'effetto dirompente che avrebbe potuto generare è stato anticipato giusto un anno prima dal Platoon di Oliver Stone, che causò una vera e propria catarsi collettiva verso quel conflitto ancora più del capolavoro di Coppola. Full Metal Jacket, dal canto suo, riesce ad essere non solo una rappresentazione ancora più graffiante del Vietnam rispetto alle memorie di Stone, ma anche una delle più lucide e veritiere riflessioni sui meccanismi di disumanizzazione necessari ai conflitti che si siano mai visti.
Per combattere una guerra, prima ancora che per vincerla, l'essere umano deve disumanizzarsi. Questo è, in buona sostanza, il tema centrale di tutto il film, il che lo accomuna al "cuore di tenebra" di Apocalypse Now. Tema qui declinato in tre atti distinti come una progressiva catarsi del suo protagonista, conosciuto solo come "soldato Joker", il quale, al pari di tutti gli altri personaggi, non ha un nome civile, solo un soprannome ricevuto durante l'addestramento.
Un protagonista che è al contempo parte attiva e puro spettatore degli orrori del conflitto, nostro punto di vista prima sull'addestramento, poi sulle azioni in campo, dove ricopre il ruolo di reporter per la rivista di propaganda Stars and Stripes. Un giovane uomo dai tipici lineamenti americani di un Matthew Modine nel ruolo della vita, che usa il sarcasmo e l'umorismo spicciolo come meccanismo di difesa e che vive in uno stato di sospensione fino all'epilogo: non un innocente, né un assassino vero e proprio, al pari del suo stato di soggetto e spettatore della narrazione resta a metà strada perso in quella che lui stesso definisce come la naturale ambiguità dell'essere umano, incarnata dall'iconica accoppiata del distintivo di pace con la scritta "born to kill" sull'elmetto. Joker è un ragazzo che ha accettato la sua sete di sangue (l'intervista rilasciata durante le azioni sul campo, forse artefatta, forse no) e l'addestramento ricevuto, il quale si completa solo quando, alla fine di tutto il film, decide di uccidere la giovane cecchina.
La visione alla base del suo arco narrativo, nonché di tutto il film, è riassunta dalle sue stesse parole: l'esercito non vuole dei robot, l'esercito vuole dei killer. E' in tale costrutto che vive tutto il teorema kubrickiano sulla guerra in epoca moderna. I soldati, siano essi ufficiali che fanti, vengono riprogrammati per diventare degli "assassini nati" al fine di compiere la carneficina necessaria al progresso in battaglia; sono finiti i tempi nei quali i soldati erano una massa mandata al massacro da ufficiali privi di scrupoli, ora quel che conta è la capacità di fare proprio quel "cuore di tenebra" proprio dell'essere umano per trarne un vantaggio sul campo. Full Metal Jacket non è che la descrizione di tale processo.
Nel corso degli anni questa descrizione precisa e accurata ha portato ad etichettare il film come pacifista o anche semplicemente come anti-bellico; ma a ben vedere, il modo in cui Kubrick la costruisce è del tutto priva di giudizi: si limita a descrivere il meccanismo, a ritrarlo senza fronzoli o abbellimenti; il relativo giudizio viene lasciato totalmente allo spettatore. Sia lui che Herr non giudicano direttamente l'inumanità della guerra, tanto che quest'ultimo, poco prima dell'uscita del film in sala, ha perfino ammesso come il film avrebbe finito per far arrabbiare "i sinistrorsi". Entrambi hanno un punto di vista distaccato e accettano il fatto che è proprio la guerra, in quanto tale, ad esigere una tale disumanizzazione e necessario il processo che ne è alla base.
Processo che inizia ovviamente nel campo di addestramento, in quel primo atto che è ad oggi il più iconico di tutto il film. Due settimane in un campo di addestramento per "falsi duri e pazzi furiosi" e mai definizione fu più azzeccata.
Il procedimento di indottrinamento comincia con la rasatura dei capelli e Kubrick costruisce questo atto in modo ironico, sulle note Hello Vietnam mentre l'individualità dei ragazzi viene sbucciata via. I soldati del film non hanno un passato: la narrazione si apre con il loro arrivo al campo, prima non c'è niente, dopo c'è solo la guerra e il film si chiude con la fine della loro campagna e l'annuncio del loro imminente rientro in patria. Non esiste una vita fuori dal conflitto, solo quello che il conflitto comporta. Il loro carattere, di conseguenza, viene nascosto, di esso si vedono sono sprazzi dati dai dialoghi e azioni. La loro individualità cede il passo ad un racconto che spesso si svincola dal punto di vista di Joker per divenire collettivo o anche solo altro, a partire proprio dall'addestramento.
Nella fase di addestramento, la dinamica di conflitto principale viene data dal confronto delle reclute con il temibile e iconico sergente maggiore Hartman, interpretato dal compianto R.Lee Hermy, che qui inizia una florida carriera da caratterista, ma che aveva preso parte al film come consulente militare dato il status di ex soldato di carriera. Hartman non è certo la prima figura di sergente di ferro ad apparire sul grande schermo, giusto qualche anno prima Lou Gossett Jr. aveva vinto un Oscar per un personaggio analogo in Ufficiale e Gentiluomo, ma la creatura kubrickiana riesce meglio e con più forza ad incarnare l'ideale di una macchina bellica dove il perfetto esponente è un deviato in grado solo urlare ordini e denigrare i cadetti.
Proprio il meccanismo denigratorio è essenziale alla formazione del soldato: la personalità del singolo viene annientata a suon di insulti e umiliazioni (da applausi la versione italiana, a quanto pare persino preferita da Kubrick a quella originale, dove il turpiloquio nostrano rende decisamente meglio l'inumanità grottesca dei dialoghi); il singolo non conta, conta solo il corpo dei marines. Il singolo soldato, pur se riprogrammato come macchina da guerra, non è che un ingranaggio di un meccanismo più grande, un pezzo da usare in battaglia, un proiettile da sparare contro il nemico (da cui il titolo del film).
Il meccanismo di de-umanizzazione ovviamente non può sempre funzionare, non può creare macchine da guerra perfette in senso assoluto. Da cui il personaggio di Palla di Lardo, interpretato da un incredibile Vincent D'Onofrio, emblema di come il sistema possa disintegrare totalmente la psiche umana. E' lui il vero protagonista del primo atto e, a differenza di quello di Joker, il suo è un percorso distruttivo, che culmina nel più celebre dei "Kubrick stare", lo sguardo di una follia che lo ha divorato totalmente; eppure, anche se distrutto dalla riprogrammazione subita, resta anche lui un perfetto killer, con quel centro perfetto nel petto di Hartman, dimostrazione di come l'addestramento funzioni sempre.
Cosa rappresenta di preciso Palla di Lardo? Una visione superficiale porterebbe a vederlo come un "buono" il cui cuore molle non regge all'addestramento e che per questo finisce per impazzire. Ma tale lettura appare incorretta: né lui, né molti altri dei personaggi hanno una bussola morale effettiva.
A ben guardarlo, più che un animo gentile, quello di Palla di Lardo è l'animo (e la mente) di un bambino, il quale viene schiacciato e riprogrammato per essere un assassino, ma che non riesce a sopportare una tale forma di trasformazione: la parte fanciullesca dei giovani uomini deve essere soppressa, cedere il passo al cinismo dell'adulto, ma quando questo non accade, non può che esserci un annichilimento totale della personalità, una caduta totale nei sentimenti più distruttivi dell'animo umano, quello che Jung definiva come "l'ombra", la quale finisce per divorare l'io.
Il rapporto con Joker, in merito, è esplicativo, sia per lui che per l'arco dello stesso Joker. Quest'ultimo comprende fin da subito il meccanismo alla base del rapporto che si instaura tra l'autorità (Hartman) e il singolo; quando viene confrontato dal superiore in merito alla sua religione, egli non solo ne anticipa gli sviluppi, ma tenendogli testa chiarifica il rapporto che deve intercorrere tra i due; Hartman, dinanzi a tale presa di coscienza, non può che promuoverlo e trasformarlo in una vera e propria genitoriale verso il "figlio minorato". Joker inizia a prendersi cura di Palla di Lardo, cerca di fargli comprendere i suoi errori e nella terribile scena della punizione arriva persino a coprirsi le orecchie per non sentirne i pianti infantili, dopo aver tentennato prima di punirlo, suo primo passo verso l'ombra.
La pazzia di Palla di Lardo è poi follia solo in parte. Come anticipato, in senso lato lui è il perfetto frutto che una riprogrammazione del genere comporta su di un essere umano. Lo si comprende in prima istanza in una scena solo in apparenza ordinaria, ossia quando Hartman interroga i soldati su chi fossero Charles Whitman e Lee Harvey Oswald; alla domanda retorica su dove questi due assassini avessero imparato a sparare così bene, risponde semplicemente nel corpo dei marines. L'esercito non vuole dei robot, l'esercito vuole dei killer, appunto, non importa se questi killer possano restare al guinzaglio di un superiore che ne indirizzi il fuoco. Palla di Lardo completa il suo addestramento e, ancora, quel colpo in pieno petto ad Hartman dimostra come anch'egli non sia altro che un ennesimo successo per il sistema. Di conseguenza, il "Kubrick stare" più importante che lo riguarda non è quello, più famoso come detto, che si ha nella scena del bagno, bensì quello, più sottile, della scena in cui Hartman parla dei due assassini, rappresentandone l'inizio della spirale di follia.
E' opinione come che i due atti successivi del film siano più deboli. Certo, è forse nei primi quaranta minuti che giace il vero cuore di Full Metal Jacket e sono così perfetti che persino Kubrick non poteva fare di meglio nel suo stesso film. Ma dire che la restante parte non sia riuscita è semplicemente falso.
Due atti la cui distinzione è labile se paragonata alla cesura che chiude il primo; questo perché la seconda parte del film è strutturata come una serie di quadri che Joker e gli altri personaggi attraversano, di cui l'ultimo, quello del cecchino, è il più lungo e complesso.
La narrazione frammentata permette a Kubrick di avere maggiore libertà nella costruzione narrativa e immergere il suo protagonista/spettatore in situazioni sempre differenti, allargando la tela sulla quale dipingere quello che è un affresco bellico di rara verosimiglianza.
Il modo in cui le azioni di guerra sono ricreate è perfetto, con azioni fulminee dove spesso nessuno ha idea di cosa sia successo davvero; da antologia l'attacco alle rovine della città che culmina in una serie di primi piani dei volti esterrefatti dei soldati, in dubbio se la schermaglia sia stata vinta o meno; dove l'ultimo è quello di Crazy Earl, altro esempio di umano riprogrammato che ama l'euforia da combattimento, tanto che Kubrick sottolinea la scarica di adrenalina successiva all'azione con le note di Surfin' Bird, vero e proprio pezzo da festa goliardica.
E' in questa seconda parte che tutti i frutti dell'addestramento giungono a maturazione. Joker attraversa il Vietnam assistendo alla loro piena evoluzione, mentre Kubrick giustappone alla violenza della guerra anche la tematica del sesso.
La prima scena, in tal senso, è essenziale, con l'ingresso in scena della prostituta, la reintroduzione di un Joker dai capelli lunghi e quella del suo commilitone e collega fotografo Rafterman. Sesso e violenza vanno a braccetto perché il conflitto porta a galla le pulsioni primordiali dell'essere umano, ossia uccidere per sopravvivere e riprodursi, sfogare la libido e in generale ogni energia nel modo più diretto possibile, con i soldati che sono quindi simili ai teppisti ultraviolenti di Arancia Meccanica.
Laddove Joker combatte per tenere a bada l'istinto omicida e il disgusto provato nel vedere i propri colleghi togliere la vita senza scrupoli, incontriamo un personaggio essenziale per tutto il paradigma kibrickiano, ossia Animal Mother (solo Animal nella versione italiana). Un personaggio che rappresenta la perfetta riuscita del programma di addestramento, oltre che la totale assimilazione che gli effetti del conflitto bellico hanno sull'uomo. Animal Mother non è un semplice killer i cui tratti umani sono ridotti al minimo, non è soltanto un uomo che prova piacere nell'infliggere dolore e morte al nemico, ma come il nome implica è un essere umano regredito ai più basilari istinti. Quello di uccidere spiega l' "Animal", il "Mother" è più sottile e lo si comprende quando si arriva alla lunga sequenza dell'assedio del cecchino: d'un tratto quest'essere brutale e persino razzista inizia a perdere il controllo dinanzi al dolore dei propri compagni; il suo istinto non è solo quello di annientare il nemico, ma anche quello di proteggere i membri del proprio branco, una specie di istinto materno riversato su legami non di sangue.
L'ultimo atto rappresenta il punto di non ritorno. Joker, che fino a quel punto ha avuto un ruolo quasi passivo negli eventi, si ritrova a dover prendere una decisione essenziale, ossia quella di uccidere. Per tutto il film lo abbiamo visto anche sparare, ma mai colpire davvero qualcuno. Il suo rapporto con l'omicidio è sempre stato a distanza, separato dallo sguardo della macchina fotografica di Rafterman, limitato ad osservare chi massacrava anche i civili in modo gratuito, come nella grottesca scena del mitragliere sull'elicottero (l'attore che lo interpreta con piglio cartoonesco, Tim Colceri, era la prima scelta per Hartman e per anni ne ha interpretato i monologhi a teatro). Il paragone con la scena dell'elicottero è essenziale: la distanza che separava il killer dalla vittima lì è chilometrica, per Joker è invece azzerata quando si tratta di darle il colpo di grazia, l'unico che riesce a sparare. Un colpo che è però, appunto, una liberazione dal dolore, non un uccisione gratuita; ma che arriva lo stesso solo dopo aver visto il volto della vittima, solo dopo averne sentito la voce, solo dopo averla percepita come un essere umano e non come una figura astratta.
E' nel finale che Kubrick distrugge ogni aspettativa: quello di Joker non è un arco decostruttivo a là Và e Vedi, non è la storia di un innocente che scopre la sete di sangue, né un apologo su come la guerra distrugga quanto di buono c'è nell'uomo. E' nel finale che Kubrick sancisce il suo totale distacco dalla materia evitando retorica e moralismi.
La storia di Joker è semplicemente quella di un ragazzo che ha attraversato l'inferno del conflitto e ne è uscito indenne. Uno spettatore chiamato anche ad interagire con quanto osserva, ma non ad esserne intaccato permanentemente. Lui non è Animal, lui non è Palla di Lardo, né Cowboy, Rafterman o Crazy Earl, lui è un uomo che probabilmente tornato a casa, al pari di Michael Herr e Gustav Hasford riuscirà a metabolizzare totalmente l'esperienza e a tradurla in testimonianza. Full Metal Jacket in fondo non è la sua storia, ma quella dei suo plotone, di quei proiettili che insieme a lui sono stati sparati, ma per i quali il ritorno a casa sarà differente.
Il commento musicale, come sempre nel cinema dell'autore, è essenziale: di ritorno verso il congedo, mentre attraversano uno scenario letteralmente infernale fatto di fuoco e tenebre, intonano Il Club di Topolino, ossia una canzone infantile, testimonianza di quella fanciullezza che hanno sacrificato e che forse ora, a conflitto finito, possono riscoprire. Sempre che, nel loro cuore, ne sia rimasta ancora una, sepolta sotto il piombo, il sesso bestiale e il sangue.
E' proprio questo epilogo a dispiegare in toto la visione junghiana alla base di quella di Kubrick: Joker ha fatto sua l'ombra, non l'ha repressa, tantomeno ha lasciato che ne venisse consumato. E' venuto a patti con il suo lato oscuro, con il male che ha dentro, con l'impulso distruttivo. Abbracciandolo è in senso lato maturato, oltre ad essere riuscito a sopravvivere ad un'esperienza dove gli impulsi dell'ombra sono essenziali. Kubrick, ancora, non da giudizi su tale arco, non si domanda se il necessario assorbimento e l'utilizzo degli impulsi distruttivi dell'uomo sia una cosa giusta o sbagliata, si limita a ponderare come determinate situazioni portino necessariamente a farlo e come la prima conseguenza sia una più alta forma di coscienza, una maturazione umana totale forse proprio perché permette di venire a patti con sensazioni e impulsi che normalmente vengono obliati.
Sebbene la rappresentazione del conflitto in Vietnam ordita da Kubrick sia perfetta, la vera forza di Full Metal Jacket resta nella sua universalità: esso descrive perfettamente il meccanismo psicologico che il conflitto bellico impone all'essere umano, tanto che la medesima storia potrebbe tranquillamente essere ambientata in ogni conflitto storico. La rappresentazione junghiana, che già era in parte alla base di Shining, qui giunge a piena maturazione e il racconto è quanto mai solido.
Pur tuttavia, se c'è un merito che rende davvero Full Metal Jacket un capolavoro, questo risiede nella sua estrema fruibilità: è un film che può appassionare persino gli spettatori meno avvezzi al racconto metaforico, che nella sua semplicità formale, a tratti genuinamente umoristica, può smuovere ogni tipo di spettatore per metterlo a confronto con realtà esteriori e interiori troppo spesso ignorate.
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