con: Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Gary Oldman, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari, Dario Alta, Peppe Lanzetta, Stefania Sandrelli.
Italia, Francia 2024
E' davvero un caso curioso il fatto che Parthenope e Megalopolis sia usciti a ridosso uno dell'altro, sia nella distribuzione in sala che alla presentazione a Cannes 2024. Entrambi rappresentano un'opera personalissima di autori amatissimi ed entrambi sono stati accusati di essere tronfi e vuoti. Ma se il film di Coppola, alla prova dei fatti, non è davvero vuoto come si vuole lasciare intendere, quello di Sorrentino paga davvero lo scotto di tanto suo cinema o, quantomeno, di come tanto suo cinema viene percepito, ossia quello di essere qualcosa di curatissimo sul piano formale, ma del tutto inconsistente.
Parthenope è un film sulla giovinezza e le sue maledizioni, sulla labilità della bellezza, ma è anche e soprattutto un film su Napoli, il secondo per Sorrentino dopo E' stata la mano di Dio. Parthenope, la protagonista, è Napoli, o per essere più precisi una sorta di spirito della napoletanità, il quale ritorna poi anche in molti altri dei personaggi con i quali si avvicenda.
Parthenope è una ragazza dalla bellezza quasi ultraterrena, magnificamente incarnata dalla bellissima esordiente Celeste Dalla Porta, la quale risulta a tratti perfetta, a tratti fatalmente acerba, non riuscendo a comunicare le emozioni del personaggio.
Chi è Parthenope? Una sirena, quella sirena che secondo la leggenda ha fondato Napoli dopo essersi suicidata: nasce nelle acque di Castel Dell'Ovo, si muove per le strade della città partenopea e ne incarna vizi e virtù. Ancora più, in quanto sirena, è una ragazza il cui splendore ammalia chiunque al punto da trasmettere una sensazione di mistero; una bellezza arcana, che sembra celare più di quello che può apparire.
Ma è davvero così? Solo nel finale Sorrentino svela il mistero: l'ossessione della ragazza riguarda i misteri dell'amore, ma per tutto il film è come se quella sua mente costantemente assente non celasse in realtà nulla, come se il suo fosse un gioco di specchi utilizzato solo per elevarsi al di sopra di tutto e di tutti.
Forse Parthenope è davvero tanto bella quanto vuota. Forse quel suo celarsi dietro letture importanti in lingua non è che un modo per sbattere in faccia al prossimo il suo egoismo, forse quella ricercatezza nelle frasi ad effetto altro non è che un meccanismo di difesa utilizzato per non affrontare quei difetti che le vengono riconosciuti. Forse Parthenope è solo una bella ragazza, poi bella donna, che oltre la bellezza estetica non cela davvero nulla, se non una semplice e basilare curiosità intellettiva. E forse questa è la visione di Napoli che ha Sorrentino.
Il forse è d'obbligo, poiché l'autore intreccia con l'oggetto del racconto un rapporto fin troppo ambiguo, fin troppo ambivalente nella sua sospensione perenne tra genuina fascinazione e aperta condanna. Sorrentino forse detesta Napoli, i Napoletani e il loro stile di vita, forse depreca quella loro supponenza e quella ricercatezza sfacciata e che celano null'altro che un vuoto interiore pronto a cannibalizzare tutto e tutti, come la diva Greta Cool (sorta di parodia di una Sophia Loren finita nel fango) vomita in faccia a quella borghesia da strapazzo che la acclama con falsi rituali e falso affetto.
Lo sguardo di Sorrentino è sempre e fin troppo sospeso. Perché, come detto, Parthenope è Napoli e come Napoli, Parthenope flirta e finisce a letto con la Camorra e con la Chiesa, tenta di imporsi come diva ma comprende la vacuità dell'ostentazione della bellezza, finendo per preferire la carriera universitaria. Ma Sorrentino non vuole giudicarla anche quando ritrae tali rituali con occhio sinistro. Basti vedere la lunga sequenza del sabba con cui le due famiglie mafiose si uniscono, ideale via di mezzo tra Salò e Eyes Wide Shut, o anche tutta la storia d'amore incestuosa.
Il suo, in sostanza, è lo sguardo di un amante fin troppo ammaliato dall'oggetto del desiderio, dal quale non riesce a trovare il giusto distacco critico. Se da anni si discute su quali differenze effettive ci siano tra lui e il suo nume tutelare Fellini, forse ora è davvero chiaro: il buon Federico sapeva guardare con occhio critico tutto e tutti, persino i personaggi di quell'Amarcord tanto amato. Sorrentino, d'altro canto, non ha raggiunto e forse neanche vuole raggiungere questa maturità artistico-umana. E la prova viene data anche dall'incredibile parata di cliché che riesce qui ad inanellare.
A questo giro, Sorrentino non si risparmia davvero in visioni eccentriche e kitsch.
A livello narrativo, imbastisce un incesto tra la protagonista e il fratello per dare corpo alla fragilità umana e agli umori della giovinezza, ma il tutto risulta superficiale oltre che non necessario, scadendo in un cattivo gusto gratuito. Inserisce una sottotrama sul mondo dello spettacolo che sembra una scusa per portare in scena qualche situazione stramba per farsi due risate. Non si risparmia nell'ultimo atto quando porta in scena una iconoclastia del Miracolo di San Gennaro più interessata a creare scenette strambe che a comunicare l'effettiva insussistenza della cerimonia. Chiude tutto con l'immancabile omaggio alla squadra del Napoli, con una doppia sfilata attraversata dalla protagonista e con l'ultimissima immagine data da un carro in festa... senza ultras e teppisti, cosa davvero strana.
Come se tutto questo non fosse abbastanza, per tutto il film, crea una sarabanda di figure grottesche a tratti genuinamente imbarazzanti.
La prima a saltare all'occhio (e a far saltare i nervi) è certamente quell'apparizione di un John Cheever che è davvero il cliché semovente di uno scrittore beatnik, messo in mezzo ad una storia del genere solo per aumentarne la caratura intellettuale, ma che finisce ovviamente per farla risultare pretenziosa al pari della sua protagonista.
Si passa attraverso Greta Cool e Flora Malva, le due dive sfiorite che come da copione vivono fuori dal tempo e dallo spazio e sono anche sfregiate, oltre che amanti del sesso anale perché si.
Ci si perde nei vicoli dei bassifondi partenopei popolati da volti che sembrano usciti dalle tavole di Junji Ito e da visioni di vita famigliare che riportano alla mente tanto e troppo cinema italiano degli anni d'oro.
Si fa la conoscenza di un industriale edonista supponente e di un giovane camorrista che impenna la moto, dotato di un grugno tanto bello quanto selvatico.
Persino Parthenope appare spesso caricaturale, perennemente agghindata in abiti ricercati, addobbata con quell'immancabile sigaretta che dovrebbe sottolinearne il fascino e sempre dotata di un libro d'autore d'ordinanza che ne sancisce la superiorità intellettuale.
Si arriva alla fine a quel climax con la visione del figlio del personaggio di Silvio Orlando, via di mezzo tra il Belial di Basket Case e lo sgorbio di Bill Paxton ne La Donna Esplosiva. Cosa dovrebbe rappresentare? Un bimbo enorme "fatto di acqua e sale", forse il figlio mai nato di Parthenope, forse la sostanza stessa della vita, forse l'incarnazione di quella bruttezza che, opponendosi alla caducità della bellezza risulta per converso veritiera e genuina, forse la salvezza sua e altrui che lei ha rifiutato tramite l'aborto, non è dato sapere. A Sorrentino forse il significato non interessa davvero, solo il significante.
Non sarebbe quindi sbagliato vedere Parthenope al pari della sua protagonista, ossia un'opera dall'eleganza sfavillante che fa credere di celare un che di profondo, quando alla fine non cela nulla.
Al pari di Celeste Dalla Porta anche il film è bello o, per essere precisi, alla costante ricerca di soluzioni estetico-visive appaganti, tanto da sfociare sovente nel patinato e nel tronfio, come nelle prime scene, tra l'altro castrate da un montaggio inspiegabilmente alacre che non lascia il tempo alle singole inquadrature di respirare a dovere, tanto che a tratti sembra di assistere ad una serie di spot pubblicitari d'autore. Non per nulla, produce Yves Saint Laurent e non ci sarebbe da stupirsi se tra qualche anno gli spot della griffe riprendessero quelle immagini inziali, con attori bellissimi in costumi d'epoca talmente sgargianti che sembrano appena usciti dalla fabbrica e che si muovono al ralenty in una città pulitissima e sempre assolata.
Parthenope alla fine è questo, ossia una pura visione di bellezza pura e semplice che vuole far credere di essere più di quello che effettivamente è. Sorrentino, da questo punto di vista, ha creato un'opera straordinariamente compatta e che sarebbe onesta se non tirasse in ballo la tematica della natura prettamente temporanea del bello. Ma anche ineluttabilmente pretenziosa quando rifiuta ogni forma di effettivo significato e decide di perdersi in una aurea indecisione compiaciuta. Tanto che, come omaggio alla città partenopea, forse funzionava maggiormente la prosa intimista di E' stata la mano di Dio.
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