con: Caleb Landry Jones, Sarah Gadon, Malcolm McDowell, Joe Pingue, James Cade, Douglas Smith, Nenna Abuwa, Wendy Crewson, Salvatore Antonio.
Canada, Francia 2012
---CONTIENE SPOILER---
Viene da ridere se si pensa che solo nel 2023 la GenZ si sia accorta di come anche ad Hollywood esista il nepotismo. Solo quest'anno gli adolescenti hanno deciso di rivolgere la loro attenzione (e i loro tweet carichi di odio e insulti) verso quegli attori e attrici "figli di", come, tra i tanti, Jack Quaid e Zoe Kravitz, colpevoli di avere un papà importante.
Tale "mezz'ora d'odio", se vista dal punto di vista di un italiano, risulta ancora più stramba, poiché se è vero che molti dei "nepo babies" (mai sia chiamarli "raccomandati", sarebbe offensivo) trovano lavoro solo perché imparentati con il potente di turno, è altrettanto vero che tra loro il talento non manca, a differenza di ciò che avviene nello show businness italiano, dove la stragrande maggioranza dei figli di papà ha il nome e null'altro. Ad Hollywood, invece, per un Max Landis c'è un Jason Reitman, per un Jake Kasdan c'è un Panos Cosmatos, a dimostrazione di come il livello di serietà e talento sia più alto.
In un'ideale categoria di mezzo potrebbe invece rientrare Brandon Cronenberg, figlio di David, il quale, benché si sia fatto un nome negli ultimi anni con pellicole tutto sommato celebri e certamente non brutte, non solo deve davvero tanto al cinema del padre (dalla cui ombra non sembra neanche volersi distaccare), ma, sfortunatamente, non ha mai diretto nulla di davvero memorabile. A partire dal suo esordio, "Aniviral" del 2012.
"Antiviral" è in tutto e per tutto un film epigono dell'opera di David Cronenberg, tanto che se non fosse stato diretto del figlio, forse, potrebbe essere preso più seriamente e persino meglio digerito. Cosa che purtroppo non può avvenire e, per essere onesti, non solo per questioni anagrafiche.
L'influenza paterna è avvertibile già leggendo la trama: Syd March (Caleb Landry Jones) lavora per la Lucas Farmacetical, società specializzata nel trapianto di malattie di celebrità; ma, a sua volta, fa con la stessa il doppio gioco, lavorando come "pirata di patologie", rivendendo al mercato nero quelle più richieste. Ossessionato dalla figura della diva Hannah Geist (Sarah Gadon), finisce suo malgrado invischiato in un vero e proprio complotto quando decide di rivendere l'ultima malattia da questi contratta, la quale è più vorace e mortale di quanto si aspettasse.
La tematica principale, almeno nei primi minuti, è la dissezione per l'ossessione verso le celebrità e in questo non si può certo dire che il film sia invecchiato bene. Se nel 2012 i divi erano ancora dei provocatori che vivevano grazie e soprattutto agli scandali, in una società occidentale che venerava la decadenza morale e materiale di individui come Paris Hilton, Kim Kardashian, Lindsay Lohan e Miley Cyrus, il rigurgito puritano della seconda metà degli anni '10 ha letteralmente seppellito la figura dei "divi maledetti", sostituendoli principalmente con asessuati perbenisti (almeno di facciata).
In "Antiviral" la figura della diva decadente è incarnata da Aria Noble (Nenna Abuwa), la cui vita sregolata diventa status quo in un mondo dove i divi sono famosi perché sono famosi, ossia un'iperbole neanche più di tanto esagerata di ciò che avveniva appena dieci anni fa.
I fan diventano così degli emuli che voglio (letteralmente) un pezzo di tale fama. Non solo assomigliare ai loro idoli, neanche sul piano dell'esteriorità, quanto essere in simbiosi con loro, oltrepassare il muro dello schermo per divenire parte integrante del loro corpo. Se la trasfusione della patologia è l'atto estremo, non meno lo è la consumane di carne sintetica coltivata dalle loro cellule, ossia una forma di cannibalismo che porta ad assimilare quei corpi tanto adorati.
Se l'ossessione per le celebrità e la mutilazione del corpo per emulazione sono le tematiche apparentemente principali del film, Brandon Cronenberg decide di abbandonarle quasi subito in favore della costruzione di un vero e proprio mystery riguardante lo strano virus contratto dalla Geist; il difetto principale della sua opera prima è insito proprio in tale scelta e nella sua correlata incapacità di saper fondere efficacemente un racconto di genere con quello strettamente metaforico, cosa che invece al padre è sempre riuscita ottimamente.
La narrazione diventa così irrimediabilmente noiosa, persa nella contemplazione del corpo di Caleb Landry Jones, pure ottimo simulacro della malattia, e di quello della musa paterna Sarah Gadon, feticcio di una bellezza tanto perfetta quanto fragile. Brandon Cronenberg non sa gestirne i tempi, dilata troppo le singole scene che finiscono così per sembrare spesso superflue anche quando essenziali e il mistero, alla fin fine, non coinvolge, né intriga.
Quel che è peggio, sul piano tematico perde completamente di vista quanto presentato nel primo atto per trasformare il tutto, nel finale, in un semplice apologo sull'ossessione privata tra singoli individui, tirando fuori letteralmente dal nulla un attrazione fisica ossessiva tra Syd e Hannah e trasformando un saggio sull'ossessione mediatica in una sorta di pamphlet cospirazionistico sul cinismo delle corporazioni farmaceutiche.
L'ombra lunga di David ritorna poi in parte anche nella messa in scena; come il padre, anche Brandon predilige l'uso della camera fissa, limitando i movimenti all'essenziale, curando in maniera certosina le singole inquadrature (merito anche del direttore della fotografia Karim Hussain) e facendo ampio uso della scenografia per creare un'atmosfera asettica fredda e opprimente. Ma così facendo, finisce per creare una serie di immagini anonime, con fotogrammi che potrebbero appartenere a qualsiasi altro film degli ultimi quindici anni, con la macchina da presa perennemente piantata ad altezza uomo e le immancabili inquadrature sulla nuca del protagonista. Quando poi decide di citare una delle immagini più famose di "Videodrome", inserendo al contempo una lieve traccia cyberpunk nella storia, la visione si fa irrimediabilmente indigesta.
Alla fin fine, "Antiviral" non è certamente un film brutto, soprattutto se lo si considera per quello che è, ossia l'opera prima nel lungometraggio di un autore che per la prima volta ha la possibilità di scrivere e dirigere qualcosa totalmente di suo pugno. Ma i difetti di scrittura e messa in scena sono talvolta fatali e il confronto con quanto fatto dal padre non aiuta di certo Brandon Cronenberg, il quale dalla sua finisce così per avere il mestiere, la grinta e nulla più.
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