di Rainer Werner Fassbinder.
con: Brigitte Mira, El Hedi ben Salem, Barbara Valentin, Irm Hermann, Elam Karlova, Anita Bucher, Margit Symo, Katharina HHerberg, Gusti Kreissl, Doris Mattes, Peter Gruhe.
Drammatico
Germania Ovest 1974
Laddove la storia d'amore con Armin Meier è rimasta la più importante e influente nella vita e nelle opere di Fassbinder, non va lo stesso sottovalutata l'importanza di un'altra travagliata storia di passione che lo ha visto protagonista, quella con El Hedi ben Salem, anch'egli attore che lui ha scoperto e lanciato, oltre che concupito sentimentalmente.
Incontratisi per caso a Parigi nel 1971, i due iniziano una relazione sentimentale e professionale che si protrarrà per qualche anno. Salem all'epoca + già padre di due figli, i quali si trasferiscono a loro volta a casa del regista, lasciando il Marocco ancora adolescenti. Ma il rapporto tra Salem e Fassbinder è a dir poco tumultuoso: a causa del carattere forte di entrambi, si trovavano spesso a litigare violentemente, scontrandosi anche sul piano fisico; al carattere difficile si sommavano poi le dipendenze, quelle da droga di Fassbinder, quella da alcool di Salem
Nel 1974 la relazione giunge al termine, ma il vero dramma deve ancora consumarsi: in preda all'ira, Salem accoltella tre persone (per fortuna senza ucciderle), poi dice a Fassbinder che "adesso non dovrà più preoccuparsi" e scappa all'estero. Rifugiatosi in Francia, Salem si suicida in carcere (dove era in custodia per altri reati) nel 1977, lasciando Fassbinder nello sgomento.
Una relazione, la loro, breve, vorticosa e passionale, simile a quella che il grande regista tedesco aveva avuto con Gunther Kaufman, visto il fatto che entrambi sono finite in tragedia. E sul piano professionale, questa relazione porta ad almeno tre risultati: la dedica fatta a Salem alla fine di "Querelle de Brest", la scena de "Il Diritto del più Forte" dove i due protagonisti vanno in vacanza in Marocco e incontrano proprio Salem, vera e propria scusa usata da Fassbinder per reincontrarlo dopo la sua rocambolesca fuga dalla Germania. E soprattutto la creazione di "La Paura manga l'Anima", tra le opere più riuscite del cinema fassbinderiano, del quale Salem è coprotagonista.
Monaco, anni '70. Emmi (Brigitte Mira) è una donna oramai anziana che intreccia una relazione con Alì (El Hedi ben Salem), un immigrato marocchino di molto più giovane di lei, generando uno scandalo.
Una storia d'amore tormentata e votata alla tragedia, come sempre nell'opera di Fassbinder. Ma "La Paura mangia l'anima" non è un puro dramma intimista, quanto e soprattutto una crudele riflessione sulla xenofobia imperante in una nazione che ancora vive tra le macerie del Nazismo.
Alì è una "non-persona" vera e propria, una specie di avatar di tutti gli immigrati in quella Germania che allora come oggi rappresenta l'unica opportunità di lavoro e affermazione economica per gli abitanti del sud del mondo (o anche solo del sud dell'Europa). Persino il suo nome è fasullo, un nomignolo affibbiatogli a causa della sua appartenenza all'etnia araba, prova di come venga visto dai Tedeschi come un nessuno, un animale buono solo per essere sfruttato lavorativo.
Emmi è tedesca di origine polacca, addirittura figlia di un membro rampante del partito nazista, ma non per questo più inserita nel contesto sociale perbenista piccolo borghese. E' una donna sola, madre di tre figli che a stento vede e persa in una solitudine che la divora poco alla volta.
L'incontro tra i due è casuale ed essenziale.
Un rapporto, il loro, non basato sulla passione. Alì non cerca sesso, tanto che nella prima scena rifiuta la pur avvenente ragazza del bar con la menzogna di essere impotente. Lui, come Emmi, cerca una comunione umana, una comprensione interiore, una forma di amore puro, genuino, sacro. Un amore dove la componente fisica esiste, ma non è essenziale, dove il legame umano è tutto e dove per una volta non c'è la volontà di possederedel partner. E che nonostante questo trova la totale ostracizzazione del prossimo.
Le ragioni della xenofobia sono praticamente inesistenti. Si citano gli attentati di Settembre Nero e l'atavismo politico di estrema destra che cinquant'anni fa come oggi è ancora più di un semplice spettro, ma Fassbinder non è tanto ingenuo da credere che la politica e la paranoia siano gli unici elementi che la ingenerano.
La xenofobia è innata nelle persone. La visione di un diverso, di un estraneo, di un uomo che fisicamente non si omologa agli standard condivisi e condivisibili è destabilizzante; tanto che non è solo Alì ad essere la vittima del biasimo dei "normali", ma anche una donna di origine jugoslava e persino quei poliziotti "rei" di portare i capelli lunghi.
Xenofobia che si sostanzia nell'esposizione di una serie di pregiudizi davvero risibili: gli Arabi puzzano, sono animali, pensano solo alle donne. Di conseguenza, chi intrattiene una relazione con loro è solo una lussuriosa in cerca di piacere facile.
Tanto che Emmi e Alì riescono a ritornare nelle grazie di vicini, colleghi e parenti solo quando questi necessitano del loro aiuto materiale, quando la relazione con loro può portare un vantaggio effettivo, in un allargamento del teorema fassbinderiano classico all'intero complesso sociale. O, in modo ancora più squallido, quando le donne si rendono conto dell'avvenenza del "negro", trasformandolo in un puro oggetto sessuale su cui sbavare.
E il biasimo generalizzato e sputato in faccia porta a sua volta ad una forma di paranoia che attanaglia chi ne è vittima.
La paura mangia l'anima: il biasimo porta ad uno stato paranoico perenne, gli sguardi costantemente puntati contro un'immagine considerata come "immorale" finiscono per ferire le persone, distruggerne la psiche prima che i sentimenti. Da cui la crisi coniugale, con Alì che decide di abbandonare momentaneamente Emmi per trovare rifugio nel corpo di Barbara, donna più giovane e attraente, ma il cui amore è prettametne fisico, una consolazione temporanea, oltre che una via di fuga verso gli sguardi accusatori. E se la storia d'amore tra la anziana donna sola e il giovane immigrato ancora più solo non finisce in una tragedia vera e propria, Fassbinder la lascia comunque in sospeso, con una speranza per un futuro migliore; una speranza flebilissima e ai limiti dell'illusione, ma pur sempre una speranza.
La visione sociale di "La Paura mangia l'anima" è magari scontata sino all'ovvio, a tratti persino fino al cliché, ma il paradosso è che ancora oggi risulta drammaticamente veritiera. Che sia merito della sensibilità di Fassbinder o colpa dello squallore umano imperante, alla fin fine conta davvero poco.
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