venerdì 15 novembre 2024

Longlegs

di Osgood Perkins.

con: Maika Monroe, Nicolas Cage, Blair Underwood, Alicia Witt, Michelle Choi-Lee, Dakota Doulby, Lauren Akala, Kiernan Shipka.

Thriller/Horror

Canada, Usa 2024
















---CONTIENE SPOILER---

Cercare di dire qualcosa di nuovo con la tematica dei serial killer è impresa assai difficile, visto il riorno in auge dell'argomento che si è verificato negli ultimi anni. Tra serie televisive che ricostruiscono la vita degli assassini più efferati (con risultati talvolta di cattivo gusto) e podcast di true crime che dissezionano ogni singolo evento di cronaca nera (con risultati talvolta di ancora più cattivo gusto), al cinema non resta che cercare di rileggere l'argomento stilizzandolo verso l'horror, soluzione che funziona soprattutto quando non si tirano in ballo eventi reali.
Longlegs alla fine non fa altro che riprendere gli stilemi di tanto cinema sui serial killer del passato, in particolare di quella visione post Il Silenzio degli Innocenti che ibridava il thrilling poliziesco con l'horror vero e proprio; la visione di Osgood Perkins, figlio del compianto Anthony e solitamente più attivo nel filone apertamente sovrannaturale, è chiara, ossia quella di rifarsi alle letture più disturbanti del fenomeno, per poi calarlo in un contesto squisitamente orrorifico, che nell'ultimo atto sfocia, appunto, nel sovrannaturale vero e proprio. Impresa perfettamente riuscita, ma di certo non memorabile come si potrebbe credere.



Usa, anni '90. La giovane detective del FBI Lee Harker (Maika Monroe) scopre di avere delle capacità psichiche; per questo viene messa sulle tracce del serial killer semplicemente noto come "Longlegs" (Cage), attivo dal oltre vent'anni...
L'ambientazione riporta alla mente i classici del thriller-horror, ma l'atmosfera cui si rifà Perkins pesca più che altro dall'immaginario del cinema anni '70, con tanto di richiami vintagexploitation nelle scenografie e soprattutto nell'uso del 4:3 per i flashback.
L'intento è chiaro, ossia quello di rielaborare in chiave fantastica alcuni casi di cronaca: alla base della storia c'è infatti la figura della "Bestia del Jersey", attiva nei primi anni '70. Perkins enfatizza gli aspetti satanici degli omicidi e ne fonde la figura con quella di Zodiac Killer, con tanto di codici astratti usati per comunicare con gli inquirenti.


La transizione da comune thriller con venature orrorifiche a horror vero e proprio avviene in modo naturale anche grazie all'atmosfera che il film riesce ad intessere con cura; un'atmosfera autunnale e fredda, nella quale la violenza risalta maggiormente, oltrepassata in efficacia solo dai riferimenti religiosi e sacrileghi, che riescono davvero a comunicare un senso di disagio costante per tutta la durata.
Perkins riesce così a tenere sempre alta la tensione, anche grazie allo stile ipnotico della costruzione delle inquadrature, ricercatissime nella loro essenziale geometricità. Ed è proprio qui che Longlegs, paradossalmente, mostra tutti i suoi limiti.


Perché alla fine della fiera, tutto il film non è che una riesumazione di un vecchio filone del cinema dell'orrore, tanto che, una volta scoperta la transizione verso l'horror satanista che si ha a metà film, il paragone con il purtroppo dimenticato Il Tocco del Male appare inevitabile. Ma Perkins dirige tutto con la mano pesante di chi crede di stare creando un'opera radicale e originale, come un Ari Aster o un Robert Eggers, caricando di enfasi ogni singola immagine e ogni singola scena e, contemporaneamente, dirigendo Maika Monroe in modo da essere il più fredda possibile. 
Il risultato è il più classico degli "elevated horror" degli ultimi anni, un perfetto paradigma di quei film di genere prodotti dalla A24 o dalla Neon (che guarda caso qui è coinvolta) dove la messa in scena vuole far credere che ci sia qualcosa di più a livello contenutistico, quando invece non c'è nulla oltre ad una semplice storia poliziesca e orrorifica. Con la conseguenza, ulteriore, che il film perde di personalità proprio perché ancorato agli stilemi di una messa in scena "snob" di tanto cinema degli ultimi dodici anni, con tanto di camera a mano che pedina la protagonista, inquadrature laccate, macchina da presa immobile per trovare sempre la soluzione geometricamente più azzeccata e poche inquadrature per le scene più importanti (come nell'apparizione, essenziale ai fini della storia, di Kiernan Shipka, risolta praticamente con un'unica, lunga inquadratura).


Longlegs è, in buona sostanza, un puro exploit di genere travestito da pellicola "elevata", nulla più di quello che fino ad una quindicina di anni fa sarebbe stato etichettato come l'ennesimo epigono di Se7en, sul quale è stata poi passata una mano di vernice per travestirlo da film impegnato e innovativo. Perkins lo ha semplicemente diretto con la flemma di chi sta dirigendo un dramma esistenzialista, nulla più, perché di tutti gli argomenti "elevati" toccati, nessuno diventa mai il centro effettivo del racconto: non la tematica satanista o antropologica, non il rapporto famigliare "malato" dei personaggi, non la ricostruzione della religiosità in America, né gli effetti che una serie di omicidi brutali possano avere sulle piccole comunità. Persino il nome del killer non trova effettiva spiegazione.
Tolta la patina di "impegno", quello che resta è un film di genere solido e con due ottimi protagonisti, ma è anche corretto dire che non sia altro se non "Il Tocco del Male diretto a là Bergman". E la mente corre a Thriller- A Cruel Picture.

lunedì 11 novembre 2024

Terrifier 3

di Damien Leone.

con: David Howard Thornton, Lauren LaVera, Elliotl Fullam, Antonella Rose, Samantha Scaffidi, Margaret Anne Florence, Alexa Blair, Bryce Johnson, Clint Howard, Tom Savini, Jason Patric, Chris Jericho.

Horror/Slasher/Gore

Usa 2024













Il successo di Terrifier 2 sembra aver nuovamente aperto le porte al cinema horror estremo. Successo che non è confinato ai semplici numeri, quanto anche alla cronaca, visto il famoso caso nel quale in una scuola media nostrana il film è stato mostrato per intrattenere gli alunni, causando urla di panico e svenimenti, episodio che ha cementificato la fama della creatura di Damien Leone presso i più giovani.
Arrivato circa due anni dopo il secondo (in realtà terzo) capitolo, Terrifier 3 ha letteralmente fatto a pezzi il box office americano e ottenuto un ottimo riscontro anche alle anteprime di Halloween qui in Italia, dove per la prima volta Art il Clown giunge in sala.
Successo meritato: quella di Art è davvero una maschera slasher memorabile e le sue gesta, anche in questo terzo film, sono talvolta da antologia del filone gore. Tuttavia, c'è qualcosa in questo nuovo capitolo che lo rende per certi versi meno memorabile del precedente...

















Sono passati cinque anni da quando Sienna (Lauren LaVera, bella e brava come sempre) ha decapitato Art il Clown (David Howard Thornton) durante la notte di Halloween. Lei è rimasta traumatizzata e ha trascorso tale periodo in una casa di cura, dalla quale viene dismessa per andare a vivere con gli zii. Lui è letteralmente rinato dal corpo di Vickie (Samantha Scaffidi), la final girl del primo film ora divenuta sua complice e compagna; dopo un periodo di vera e propria ibernazione, Art torna alla carica, giusto in tempo per il periodo natalizio...

















Leone alza in tiro in (quasi) tutti i sensi. Ha qui un budget ancora più alto che nel predecessore, che gli permette di curare maggiormente la messa in scena. La fotografia diventa davvero interessante, con i giochi di luce natalizi che creano immagini calde e avvolgenti, cornice perfetta per il gore al solito estremo; l'ambientazione, poi, aggiunge quel qualcosa di originale, rifacendosi alla tradizione degli horror natalizi a là Natale di Sangue, con Art che sfoggia un simpatico costume da Babbo Natale per quasi tutta la durata, trovata che ha portato poi alle classiche polemiche per la scena in cui fa saltare in aria dei bambini con una bomba, come se Gli Intoccabili di De Palma non fosse mai esistito...
Il tono affettuoso verso i classici prende poi le forme di un paio di amorevoli camei, con le apparizioni di Daniel Roebuck e Clint Howard nei panni di alcune vittime e del mitico Tom Savini in quelli di un tizio intervistato in merito al massacro al centro commerciale, trovata davvero simpatica.



















Il gusto per l'esagerazione è sempre presente e sempre alto, ma Leone sa comunque dove fermarsi, vista anche la presenza di bambini tra le vittime di Art. Nella famosa scena della bomba, di fatto non si vede mai la piccola vittima saltare in aria, così come nel prologo i due bambini muoiono fuori scena, anche se viene mostrato il cadavere mutilato di uno dei due, fortunatamente senza volto. Il cattivo gusto effettivo viene così evitato e il tasso di divertimento è sempre alto.
Tuttavia, a questo giro è come se parte del mordente sia andato perso: sebbene ci sia sempre una componente sadica nelle uccisioni, anche quando virate al grottesco, manca quella vena di vera cattiveria che era presente nei primi due film; manca, per intenderci, quel senso di disagio nel vedere i corpi delle vittime vandalizzati che si aveva nella celebre scena della morte di Catherine Corcoran nel primo film o in quella della ragazza "zombificata" nel secondo.



















Terrifier è diventato mainstream? Sicuramente, non per l'altro che per l'uscita in sala a livello internazionale, ma questo non è per forza un difetto, in prima istanza proprio perché Leone non si è lasciato condizionare in merito alla soglia del mostrabile. In secondo luogo, complice il buon budget, qui dimostra una mano da filmmaker decisamente più ferma, con il montaggio generale che non si ferma all'assemblaggio delle singole inquadrature, cosa che invece avveniva nel capitolo precedente e che dava la sensazione di stare assistendo ad una copia-lavoro piuttosto che ad un film finito. Soprattutto, oltre alla fotografia più curata, le singole scene danno la sensazione di assistere ad un film vero e proprio, non un piccolo indie girato giusto con gli spicci, e questo nonostante il budget non sia di certo stratosferico. Per intenderci: le scene ambientate al campus e al centro commerciale permettono al film di avere un respiro più ampio e di non confinarlo ai soliti interni di villette piccolo-borghesi o piccoli diner deserti.



















Se mai si può davvero rimproverare qualcosa a Damien Leone è quel finale fin troppo aperto, dove la sua volontà di far capire al pubblico come tutto Terrifier altro non sia che una scusa per imbastire ammazzamenti creativi diventa fin troppo evidente. La risoluzione che veniva data nei film precedenti, che pure mancavano (e fa strano scriverlo) di una "trama" completa, era decisamente più soddisfacente, qui invece si ha davvero la sensazione di aver voluto lasciare tutto in sospeso per non togliere tempo alle scene gore nel film successivo.
Mancanza che non rende il tutto meno godibile. Perché alla fine anche Terrifier 3 altro non è se non quello che appare, ossia un buon slasher vecchia scuola che intrattiene grazie agli SFX e all'iconicità del suo mostro.

venerdì 8 novembre 2024

In nome del popolo italiano

di Dino Risi.

con: Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Ely Galleani, Yvonne Furneaux, Michele Cimarosa, Renato Baldini, Pietro Tordi, Maria Teresa Albani, Simonetta Stefanelli.

Italia 1971

















---CONTIENE SPOILER---


Guardando i nomi coinvolti in un film come In nome del popolo italiano si potrebbe pensare alla classica commedia all'italiana o al massimo ad una commedia stile Un Giorno in Pretura; alla sceneggiatura troviamo Furio Scarpelli, sempre in coppia con Agenore Incrocci, in arte "Age"; alla regia un gigante della commedia come il mai troppo lodato Dino Risi; i due protagonisti sono Gassman e Tognazzi, i quali già all'epoca venivano ricordati e apprezzati principalmente per opere leggere e umoristiche.
Quando poi ci si accinge a guardare il film, ci si accorge di come di commedia non abbia quasi nulla (benché l'elemento umoristico sia più marcato rispetto ad opere simili dell'epoca, come Detenuto in attesa di Giudizio di Nanni Loy) e che si tratti in realtà di un esponente del filone del Cinema Civile Italiano anche alquanto rigoroso nelle sue posizioni (che nel finale si fanno persino radicali).
Non bisogna però stupirsene, in primis a causa dell'estrema versatilità di Risi, del duo di sceneggiatori del resto del cast artistico, i quali hanno sovente lavorato anche in opere decisamente più "serie" (il virgolettato è d'obbligo, visto che anche gli exploit più leggeri di leggero spesso avevano solo il tono); in secondo luogo, non va mai dimenticato come la Commedia all'Italiana di fatto sia figlia del Neorealismo, il quale, sul lungo periodo, ha finito per plasmare lo stesso Cinema Civile, non tanto nella messa in scena quanto nell'impegno delle tematiche trattate.
Commedia e film d'impegno morale e civico altro non sono, dunque, che due frutti del medesimo ramo e talvolta il confine tra i due è stato (ed è in realtà tutt'ora) labile. E In nome del popolo italiano è qui a testimoniarlo.



















Se molti esponenti del filone si sono dimostrati ancora attuali, In nome del popolo italiano si è dimostrato anche profetico, con la precognizione del berlusconismo e suoi orrori, i quali già nel 1971 erano palesi nella società italiana. La trama, in tal senso, è altamente esemplificativa: il dottor Bonifazi (Tognazzi). da poco promosso a giudice istruttore, si ritrova a dover investigare sulla morte della giovane e bella prostituta Silvana Lazzorini (Ely Galleani, all'epoca già vista in Una Lucertola con la Pelle di Donna di Fulci). Il principale indiziato sembrerebbe essere Lorenzo Santenocito (Gassman), rampante imprenditore con più aziende che capelli in testa.
La dinamica è quella dello scontro tra personalità opposte: da un lato un magistrato integerrimo e guidato unicamente dal suo senso civico, dall'altro un imprenditore spregiudicato ed edonista, nonché ex fascista arricchitosi alla borsa nera durante la guerra; ed è bene mettere subito le cose in chiaro: nello scontro di bravura tra Tognazzi e Gassman, è il primo ad uscire vincitore, non per altro perché la scrittura gli permette di interpretare un personaggio per lui in parte inedito, ossia un idealista distrutto dalla deriva immorale di quella società che è chiamato a tutelare, il cui sguardo triste trasmette una malinconia empatica. Gassman, pur divino, non fa altro che ripetere una delle sue maschere predilette, soprattutto nel cinema di Risi. 



















Lo scontro, in sostanza, è quello tra magistratura e classe dirigente corrotta e già qui l'ombra lunga degli scandali della squallida Seconda Repubblica si allunga a ritroso, resa ancora più cupa dalla centralità del personaggio della prostituta, sorta di olgettina ante literam usata da Santenocito per oliare i rapporti con i partner di affari. 
E' poi lo stesso Santenocito a rappresentare un paradigma perfetto del tipo di imprenditore che Berlusconi porterà alla ribalta a partire dalla fine del decennio, ossia uno spregiudicato in grado di usare qualsiasi strategia pur di prosperare e il cui motto è letteralmente "la corruzione è progresso"; un uomo che vive impunemente usando i valori tradizionali come paravento per darsi un tono di superiorità morale, solo per sguazzare nell'autoindulgenza più pura: lo vediamo affermare di essere un uomo di famiglia, ma poi scarica il padre quando capisce che non può utilizzarlo per costruirsi un alibi; allo stesso modo, ha una figlia che ha la stessa età dell'amante e alla quale inculca un moralismo anti-sessuale ilare nella sua ipocrisia. 
Ipocrita è appunto la parola giusta per descriverlo, manipolatore la qualità che meglio gli si addice, tanto che cerca persino di convincere Bonifazi di una comunanza che in realtà non hanno. Risi e gli sceneggiatori lo vestono da romano e forse mai maschera fu più calzante, con gli atteggiamenti narcisisti e immorali che ricordano davvero quelli di un archetipo della Roma pagana.


















Bonifazi è ovviamente una nemesi, un giudice irreprensibile il quale si ritrova ad aver a che fare con un campione di impunità. Laddove il suo nemico prospera, lui vive una vita tutto sommato agra, reduce da una separazione che lo ha svuotato di ogni forma di affetto, con lo spettro della moglie fedifraga pronto a riaffacciarsi solo per sfruttarlo; e, prima ancora, perso in uno stato di depressione dovuto all'alienazione verso quella società chiamata a difendere. 
Una società non diversa da quella che Risi, Age, Scarpelli e tutti gli altri autori della Commedia all'Italiana descrivevano, popolata da zotici e sfruttatori, pagliacci pronti a tutto pur di salvarsi e imbecilli dalla parlata veloce, dove la maleducazione la fa da padrone e il gergo aulico è usato come espressione di superbia, unico aspetto nel quale il film è invecchiato male: oggi l'imprenditore corrotto e ammanicato raglierebbe versi incomprensibili riguardo alla libertà, con un corredo di parolacce e insulti gratuiti.
Se i due poli opposti dello scontro ideologico tra morale e immoralità sono due persone tutto sommato posate, del tutto caricaturali sono coloro i quali vengono chiamati a ricoprire il ruolo del "volgo". In prima istanza, questo è ricoperto dai genitori della vittima, due spiantati che adoperano una patina di ricercatezza per coprire il buco nero umano e morale del quale sono fatti: poeta il padre, insegnante di musica la madre, gioiscono del fatto che la figlia si vendesse perché così garantiva loro un buon tenore di vita, attaccati più alla materia che a quei valori che, come tutti gli Italiani, tanto decantano.














Sono queste solo le due maschere più espressive di quel popolo italiano del titolo, in nome del quale è amministrata la legge; il quale non solo non ha coscienza di legge e morale, ma se ne infischia anche della differenza basilare tra bene e male.
Un popolo che vive in una nazione che viene sfregiata e devastata dall'azione degli imprenditori, i quali non hanno coscienza del loro male, né vogliono averla. Vediamo già nelle prime scene gli sversamenti illeciti delle industrie di Santenocito in mare, i quali avvelenano il pescato; assitiamo, più avanti, allo sfacelo causato dai lavori alle strade, le quali crollano con un nonnulla. Il tutto mentre i cittadini si voltano dall'altra parte, al pari dei rappresentanti delle istituzioni.
Uno scontro particolare avviene  tra Bonifazi e un pubblico ministero; nell'Italia pre-riforma del codice di procedura penale, la figura del giudice istruttore era delegata alle indagini, mentre il PM a sostenere l'accusa. Ma quello descritto nel film è un semplice burocrate che si compiace delle condanne richieste, anch'egli un residuato del Fascismo il quale usa e abusa il potere solo al fine di trarne un vantaggio personale, praticamente un Santenocito istituzionalizzato; tanto che è lo scontro tra i due che, idealmente, fa crollare il palazzo di giustizia, simbolo di come la corruzione delle istituzioni e la relativa conflittualità tra poteri porti alla distruzione effettiva del concetto di giustizia; anch'essa una posizione che ancora oggi risuona sanguinante.



















Risi e colleghi già nel 1971 fanno così sorgere quel quesito che dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino è diventato quanto mai urgente, ossia: perché un membro del potere giudiziario dovrebbe essere ligio al proprio dovere?
Il quesito, ancora più scottante, ad esso connesso è: che senso ha amministrare la giustizia in una società che vive e prospera basandosi quasi esclusivamente sullo sfruttamento coatto del prossimo e sull'impunità generalizzata? Che senso abbia, in sostanza, battersi per l'onestà e la giustizia in un luogo dove sono due concetti alieni, quasi sempre usati solo per darsi un tono di superiorità e mai davvero osservati. Risi e gli sceneggiatori non rispondo direttamente, ma lasciano intuire una risposta in quel finale apocalittico ed estremo.


















Si scopre come Santenocito sia in realtà innocente nonostante non possedesse un alibi, e che la ragazza si sia suicidata, come confessato in uno dei suoi quaderni (caso ha voluto che avesse una copertina rossa...); ma Santenocito non è di certo un innocente, reo di corruzione, oltre che di avvelenare l'ambiente e mettere a repentaglio la vita dei comuni cittadini con costruzioni abusive e pericolanti, situazione anch'essa sopportata in nome di un finto progresso e del benessere dei soli imprenditori spacciato per benessere di tutta la nazione. Bonifazi decide così di bruciare quel quaderno al fine di ottenere una condanna per il suo nemico.
Una decisione che farebbe drizzare i capelli in testa a qualsiasi giurista e di per se stessa altamente immorale. A renderla morale è però il contesto nel quale essa viene presa, dato sia dall'intero film che dall'ultimo atto.


















Nella sequenza finale, Tognazzi attraversa un città dapprima deserta a causa della partita Italia-Inghilterra che monopolizza l'attenzione di tutto il popolo. Un popolo che ritiene che il mondo debba fermarsi per il calcio, situazione già cinquant'anni fa a dir poco paradossale. La città è così un deserto in uno stato di sfacelo, popolato da senzatetto lasciati a sé stessi e insozzato da una coltre di immondizia.
Quando la partita finisce, il volgo si riversa in strada per festeggiare la vittoria della nazionale a suon di violenza gratuita e parolacce assortite. E' qui che Bonifazi vede nella gente comune Santenocito, fenomeno che può avere due interpretazioni. 
La prima è come la sua ossessione per un farabutto impunito lo abbia portato oltre ogni limite, finendo per plagiarlo, per comprometterne lo stato psicologico oltre i limiti della paranoia. La seconda è come dentro quel popolo si celi, in potenza, quella germa di menefreghismo mista a cattiveria propria del Santenocito: se un personaggio del genere fosse lasciato libero, la sua impunità rappresenterebbe il trionfo del malaffare e il suo esempio finirebbe per riplasmare l'intera società a sua immagine e somiglianza. Fermare una tale deriva è un dovere non solo per per la tutela delle istituzioni, ma anche per la tutela di quei valori che, almeno sulla carta, sono alla base della Repubblica.
Un finale provocatorio e scandaloso, quasi una chiamata alle armi per quel Popolo Italiano del titolo, il quale non deve lasciarsi sedurre da figure del genere, non deve lasciare che l'immoralità lo fagociti, non deve permettere che i suoi stessi interessi cedano di fronte al profitto di una singola categoria di criminali.

















Un monito, inutile dirlo, rimasto inascoltato. 
Se cinquantatré anni fa In nome del popolo italiano era una fotografia tagliente, oggi è un avvertimento sempre valido sul quale si è posata una coltre di amarezza simile a quella che ammanta Bonifazi. Rivederlo con la coscienza di quanto avvenuto in Italia negli ultimi trent'anni è quasi sconsolante. Rivederlo in un periodo nel quale la deriva anti-giudiziaria e pro-criminale ha ripreso forza e sembra si stia definitivamente concretizzando è a dir poco disturbante. Questo perché ha finito per ottenere un valore che nessuno dei suoi autori avrebbe mai sospettato, tantomeno voluto.

martedì 5 novembre 2024

The Substance

di Coralie Fargeat.

con: Demi Moore, Margaret Qualley, Dennis Quaid, Edward Hamilton Clarke, Gore Abrams, Oscar Lesage, Hugo David Garcia.

Regno Unito, Francia 2024

















Revenge rappresenta in un certo senso il manifesto del cinema di Coralie Fargeat. Un cinema dove nulla è davvero originale e dove temi, messaggi e morale sono già stati decantati decine di altre volte in decine di altri film. Ma questo è per forza un difetto capitale?
The Substance è la risposta a questo quesito, che si traduce in un trionfante no.


















Cosa rende The Substance più riuscito di Revenge? In realtà quasi nulla, dove quel quasi sta nel fatto che riesce ad avere un'identità sua la quale non è la semplice somma delle singole fonti di ispirazione.
Fonti di ispirazione palesi che sono molteplici e che non occorre neanche citare tutte; basti sapere che siamo in una zona tra Cronenberg (sia David che forse soprattutto Brandon) e Nicolas Winding Refn e nella quale l'immortale Shining di Kubrick sembra essere un testo sacro. La Fargeat non si limita però a riproporre ciò che le piace, ma lo ricrea fino a dargli nuova forma. Una forma sua e per certi versi unica, tanto che possiamo tranquillamente dire di non essere dalle parti di Don't Worry Darling, per fortuna. E questo a partire da come affronta la tematica del corpo femminile.


















Perché The Substance, prima ancora che una critica all'ossessione per la bellezza, è un horror sugli orrori della vecchiaia, sul terrore di diventare obsoleti, sul ribrezzo causato da un corpo non più giovane. In tal senso, il casting di Demi Moore per la protagonista Elisabeth, punto di vista e motore di tutta la trama, è semplicemente divino: ex bellissima distrutta dalla chirurgia estetica già da giovane (fece scandalo il suo seno rifatto a poco più di trent'anni, che ne deturpava il corpo in modo ignobile), è ora una donna anche affascinante ma che porta sul suo viso i segni di un'ossessione ai limiti del diabolico.
Il tempo tiranno porta al decadimento, il decadimento porta all'oblio, almeno nel mondo dello show business: se non sei giovane non sei attraente, se non sei attraente non fai audience, se non fai audience non sei un prodotto che valga la pena vendere al pubblico, da cui la necessità di ringiovanire, creare letteralmente un nuovo sé da dare in pasto agli spettatori. Fino a qui, la Fargeat non fa davvero nulla di inedito o particolarmente radicale. La novità è però insita nel modo in cui guarda a questa sua protagonista.















Elisabeth, così come il suo doppio Sue, è una narcisista, una donna ossessionata dal proprio apparire e letteralmente drogata delle attenzioni che il pubblico le rivolge. La Fargeat qui prende una posizione che oggi può apparire scandalosa: si, il sistema che impone alle donne di essere sempre e solo giovani e belle è orrendo e si, i patriarchi allupati che vogliono divorare quei corpi giovani e tonici sono certamente grotteschi e disgustosi. Ma il biasimo va posto anche su quelle persone che provano piacere ad essere guardate, che godono nel sapere che la loro immagine mette l'aquilina in bocca ad un pubblico affamato di sesso, che provano orgoglio nel sapere che il loro corpo è un puro oggetto da consumare con gli occhi.
Da cui l'ossessione della cinepresa per il corpo della Qualley (ma anche per quello della Moore, che al di là di tutto è ancora oggi attraente), il cui sedere diventa il protagonista assoluto del film, quasi uno sberleffo alle polemiche, vecchie e nuove, sul "male gaze" al cinema che sembra uscito da un trip in acido di Tinto Brass.

















L'ossessione per la giovinezza è esternazione di narcisismo, l'incapacità di accettare i limiti della natura porta solo all'orrore. Nel finale, la Fargeat si dimostra coerente con quanto fatto nel suo esordio e ci delizia con un tripudio di body horror estremo e grottesco, un trionfo di carne spappolata e corpi deformati, praticamente un Tetsuo con polpa umana al posto del ferro.
Si può poi obiettare che la sua scrittura sia didascalica e tutto sommato trita e ritrita e come, di conseguenza, il premio ottenuto a Cannes sia stato frutto di una sopravvalutazione. Ma in fondo il grande pregio di The Substance sta proprio lì e risiede nel modo in cui l'autrice si pone nei confronti del pubblico: mai paternalistica o supponente, mai accusatoria verso chi osserva e chi vuole osservare, con una onestà intellettuale che di questi tempi vale davvero più dell'oro.

lunedì 4 novembre 2024

Venom: The Last Dance

di Kelly Marcel.

con: Tom Hardy, Chiwetel Ejiofor, Juno Temple, Rhys Ifans, Stephen Graham, Clark Bako, Andy Serkis.

Commedia/Fantastico/Azione

Usa, Regno Unito, Messico 2024













Ora che il Venom della Sony ha compiuto il fatidico passo ed è divenuto una trilogia, che non sarà forse neanche la sola dedicata al personaggio, è chiaro come la mentalità dietro ad una tale operazione rappresenti una sorta di paradigma produttivo dello studio verso le proprietà intellettuali legate al mondo dell'Uomo Ragno: prendere un personaggio a caso, dargli un film senza pretese, sperare che il pubblico abbocchi e da esso far partire un tot di spin-off e crossover. 
Fortuna (e buon senso comune) ha voluto che solo il simbionte nero sia riuscito a fare breccia al box-office globale. Sfortuna ha voluto che il successo ottenuto già con il primo, orrido, film non abbia convinto lo studio ad aggiustare il tiro per dare un minimo di dignità a questi film.
The Last Dance, che ovviamente sarà ultimo solo nel titolo, rappresenta di fatto una perfetta evoluzione di ciò che il Venom cinematografico è stato finora: è un film ancora più cretino dei precedenti, ma soprattutto è il film dove Tom Hardy ha pieno e totale controllo creativo su tutto.
Hardy, in questo senso, ha fatto quello che Ryan Reynolds aveva fatto con Deadpool, ossia prendere un personaggio Marvel famoso e amato e farlo proprio. Reynolds aveva però capito quello che del personaggio funzionava e come renderlo su grande schermo, Hardy ha invece solo colto la palla al balzo per avere una megaproduzione tutta propria che gli consenta di fare quello che vuole, scrivere un copione che gli garantisca tutti i momenti di overacting possibili e immaginabili, far dirigere il tutto alla propria compagnia in modo da avere un regista che segua i suoi tempi e la sua visione (non che Andy Serkis e Ruben Fleischer avessero chissà quale ispirazione) e sostanzialmente cazzeggiare per tutto il tempo con la garanzia di un ottimo riscontro di pubblico.
The Last Dance è questo e questo soltanto, ossia un film idiota il quale scopre subito le sue carte e si presenta immediatamente come un one-man-show dove è solo il suo autore a divertirsi davvero.


















Idiozia che inizia già dalla trama, che come sempre è una sarabanda di buchi, forzature e cliché: entra in scena dal nulla Knull, il celestiale che ha creato i simbionti (e la necrospada di Thor: Love & Thunder, alla quale però si accenna nemmeno) e nella prima scena dà il via alla miserevole storiella con un vero e proprio infodump da fare paura. In pratica, Knull è stato esiliato in un posto dal quale non può uscire (pianeta? Dimensione? Caverna?), però a quanto pare adesso esiste un mcguffin che può liberarlo e guarda caso ce l'ha proprio Venom sulla Terra. Perché esista questo mcguffin, perché lo abbia proprio Venom, perché il mostro non lo attacchi già in Messico, perché i simbionti si siano ribellati al loro creatore e lo abbiano esiliato e soprattutto perché Knull non possa attraversare uno dei portali che adopera per spedire i suoi mostri a spasso per il cosmo per fuggire sono dettagli tutto sommato non necessari, quello che conta è dare a Hardy una scusa per stronzeggiare.















Perché la sceneggiatura di questo pastrocchio privo di senso sembra davvero scritta su di una serie di post-it dove sono state appuntate delle idee su come tirare cretinate su schermo, poi cucite insieme con un pretesto qualsiasi. Pretesto che è quello di far rientrare Eddie Brock negli Stati Uniti e farlo arrivare a New York, ma ovviamente si fermerà a Las Vegas per il confronto finale. Tutto il film è così un road-movie nel quale Eddie incontra personaggi stupidi e si scontra ogni tanto con i soldati o con i mostri di Knull.
L'imbarazzo è servito: in ogni singola scena il focus è su come Hardy si muove in modo impacciato o sulle battutine ad effetto. Alcune sono palesemente create ad hoc al solo fine di dargli una scusa senza neanche voler far finta di celare la loro natura, come quella dove libera i cani in Messico. Quando poi si arriva a Las Vegas, la sensazione di un film scritto a braccio è fortissima, con scene che durano fin troppo e nelle quali l'unica cosa che succede è una gag cretina. Il che culmina nella scena, già divenuta scult, nella quale Venom balla, inserita giusto per far capire definitivamente al pubblico come l'unica visione dietro a tutto sia quella dell'ironia votata al ridicolo.

















Non che quando il film decida di mettere su qualcosa di serio le cose vadano meglio, anzi forse finiscono persino per peggiorare. Assistiamo al solito scontro tra scienziati e soldati su come gestire la questione degli alieni (che a tratti sembra si voglia caratterizzarli come immigrati, ma mai sia dare una lettura seria ai personaggi dei fumetti Marvel), con i primi che voglio accoglierli e studiarli, i secondi solo sterminarli in nome della sicurezza nazionale. Al di là della poca originalità, fa ridere (involontariamente, ovvio) come per una volta si riesca a parteggiare davvero per l'ufficiale fascitoide di turno (interpretato da un Chiwetel Ejiofor che ci porta a chiederci perché la sua carriera stia deragliando definitivamente) visto che Venom è sostanzialmente un povero idiota ed eliminarlo rappresenta davvero l'unica soluzione al problema di un dio intergalattico incazzato che vuole distruggere tutto perché non ha niente di meglio da fare.
















A voler essere davvero buoni, si può riconoscere come The Last Dance e gli altri film su Venom siano comunque più dignitosi di Morbius e Madame Web, visto che non sono stati scritti, riscritti, triscritti, girati, rigirati, ri-rigirati e poi montati a caso; hanno una visione alla base, ma è proprio questa visione ad essere fallata. 
In senso lato, rappresentano l'evoluzione di quella stessa visione che era alla base del primo Iron Man, ossia fare un film tutto basato sull'istrionismo di un attore e sulle scemenze che può portare in scena in due ore. Ma se nel film fondativo del MCU una tale forma di noncuranza verso l'intelligenza del pubblico poteva in parte essere giustificata dal fatto che nessuno sapesse davvero cosa stesse facendo, vista anche la mancanza di uno script definitivo, nei film su Venom tale mancanza di rispetto non ha la minima giustificazione e discende anche da una innegabile mancanza di idee. E forse anche della mancanza di vero talento.

giovedì 31 ottobre 2024

Antropophagus

di Joe D'Amato.

con: George Eastman, Tisa Farrow, Serena Grandi, Saverio Vallone, Margaret Mazzantini, Mark Bodin, Bob Larson, Rubina Rei, Zora Kerova.

Slasher/Gore

Italia 1980















Nel corpo della filmografia di Aristide Massaccesi, in arte Joe D'Amato, le pellicole che hanno finito per imporsi come cult effettivi sono davvero poche e non coincidono per forza con i suoi migliori exploit. Il titolo di cult, ad esempio, non può di certo essere dato al pur buon La Morte ha sorriso all'Assassino, mentre di certo può essere dato a Buio Omega, forse il miglior esito del suo cinema di genere, così come al pessimo Porno Holocaust.
Poi c'è Antropophahus, sua prima incursione nello slasher effettuata assieme a George Eastman, al secolo Luigi Montefiori, datata 1980, la quale di certo non ha l'originalità di Buio Omega o l'indole folle e ricercata di La Morte ha sorriso all'Assassino, ma che risulta alla fine un prodotto estremamente dignitoso, al contrario di quel Rosso Sangue concepito inizialmente come suo seguito.



















Uno slasher che, come da tradizione per il cinema di D'Amato, non vuole di certo riscrivere le regole del filone, con una trama che presenta, come al solito, tutti i topoi del caso: un gruppo di amici in vacanza in Grecia, al quale si unisce anche la giovane Julie (Tisa Farrow), si ritrova suo malgrado bloccato su di un'isoletta apparentemente disabitata, sulla quale vengono braccati da un mostruoso cannibale sfregiato (George Eastman).


















L'ambientazione esotica è praticamente l'unico elemento originale e si deve più che altro all'intuizione di Eastman. Pare che tutto il progetto sia nato da un appunto di Massaccesi al quale gli abbia chiesto di mettere su le mani e che si limitava a descrivere un naufragio con una famigliola a bordo di un gommone. Eastman trasforma questa immagine nella storia di un uomo che per sopravvivere ha dovuto divorare il figlioletto e che il conseguente trauma ha reso folle; decide di ambientare la storia vera e propria in Grecia praticamente per avere una scusa per trascorrere del tempo sulle sue assolate spiagge; sfortuna poi ha voluto che poi tutte le sue pose siano state girate nei dintorni di Roma, sabotandone i piani di relax. Poco male, perché il risultato finito è uno slasher tutto sommato riuscito e a tratti davvero interessante.



















La fama del film e il suo conseguente status di cult movie sono dovuti ovviamente alla sua carica gore, che all'epoca sembrava guardare con aria di sfida gli exploit di Fulci e che oggi ha praticamente come unico rivale il Terrifier di Damien Leone, per lo meno nel cinema non relegato ai circuiti squisitamente underground. Cosa in realtà alquanta strana quando si guarda il film, visto che tutto il sangue e le eviscerazioni vengono limitate all'ultima mezz'ora e le "portate principali" agli ultimi quindici minuti, se non meno.
Da questo punto di vista, il duo Massaccesi/Montefiori non delude certo le aspettative. Le due sequenze più famose ben hanno guadagnato la loro fama: la scena nella quale Eastman strappa dal ventre di Serena Grandi un feto e lo divora a favore di macchina è davvero agghiacciante, così come quel finale nel quale divora le sue stesse viscere. Due immagini davvero peculiari, figlie della volontà di stupire e far rivoltare lo stomaco, portate in scena senza alcun ritegno o buon gusto, per questo magnificamente capaci di colpire; anche grazie ad effetti di buona caratura, cosa che certo non si può dire per quanto mostrato in altre scene, come la decapitazione del mozzo, ottenuta con la solita testa di manichino platealmente finta.
A rivederle oggi, quelle due scene di puro sadismo trasformato in pop-corn per gli appassionati del gore colpiscono anche per un motivo alquanto peculiare, ossia la loro breve durata. D'Amato, stranamente, non insiste sui particolari splatter come faceva in Buio Omega, né come avrebbe fatto il suo punto di riferimento Lucio Fulci. Non c'è volontà scopofila nel far perdurare l'atto violento oltre il voluto, non si vuole mettere a disagio per davvero lo spettatore, solo scioccarlo in modo estemporaneo. Proprio per questo, quelle due immagini finiscono per funzionare.























Di converso, il vero limite di Antopophagus è forse proprio quello di limitare gli eccessi, cosa strana per un film di D'Amato. Per tutta la prima parte si assiste ad una serie di scenette ovvie nelle quali i malcapitati tentano di capire la situazione, in pratica nulla più di quanto le decine se non centinaia di slasher dell'epoca mostravano. Parte che se finisce per funzionare, lo deve soprattutto grazie al cast, con la compianta Tisa Farrow che si dimostra un'ottima final girl e persino Serena Grandi (che si firma con uno pseudonimo) che riesce ad essere credibile, oltre che ad una giovane Margaret Mazzantini. Tutti gli attori interpretano dei personaggi certamente non memorabili, ma la cui caratterizzazione permette di affezionarvisi, garantendo quel coinvolgimento necessario affinché le loro uccisioni risultino davvero emozionanti.


















Peccato però che alla lunga finisca per fare capolino anche la noia, con una narrazione che per funzionare davvero avrebbe dovuto essere più stringata o presentare scene di vera tensione. Questo perché D'Amato si limita ad inserire giusto un omicidio nella prima parte, la cui esecuzione manda anche in parte in frantumi la sospensione dell'incredulità, con il gruppo di personaggi che non si accorge di passare acconto ad un omaccione dal volto marcescente che trascina un cadavere decapitato. Per il resto, ricerca la tensione con jump-scare anche falsi o con la sola atmosfera desolata, senza però riuscire a trovarla sempre.


















Antropophagus funziona così come horror gore nel senso proprio e genuino del termine e come slasher finisce per funzionare unicamente per il buon lavoro del cast, assistito dalla scrittura di Eastman. La sua fama è certamente meritata, così come l'amore che i fan vi riversano, rappresentato un ottimo esempio di splatter nostrano.
Quanto al lascito di Massaccesi al cinema horror e in generale di genere, va detto come il suo nome sia diventato conosciutissimo dai cultori e c'è persino che afferma come il suo cinema vada riscoperto.
Forse è un'esagerazione, visto che, anche ad essere buoni prima ancora che onesti, c'è davvero poco da riscoprire, non per altro per il fatto che le sue opere migliori sono già state oggetto di riscoperta da almeno venticinque anni a questa parte.
Semmai bisognerebbe celebrarle maggiormente, visto anche il forte riscontro che hanno conosciuto nel corso degli anni. Antropophagus, per esempio, ha avuto ben tre sequel "ufficiosi", ossia Antropophagus II del 2022, Antropophagus Legacy di quest'anno, entrambi ad opera di Dario Germani, oltre che Antropophagus 2000 del mitico Andreas Schnaas. Prova di come l'opera di D'Amato valga più di quanto si possa pensare.