con: Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Ely Galleani, Yvonne Furneaux, Michele Cimarosa, Renato Baldini, Pietro Tordi, Maria Teresa Albani, Simonetta Stefanelli.
Italia 1971
---CONTIENE SPOILER---
Guardando i nomi coinvolti in un film come In nome del popolo italiano si potrebbe pensare alla classica commedia all'italiana o al massimo ad una commedia stile Un Giorno in Pretura; alla sceneggiatura troviamo Furio Scarpelli, sempre in coppia con Agenore Incrocci, in arte "Age"; alla regia un gigante della commedia come il mai troppo lodato Dino Risi; i due protagonisti sono Gassman e Tognazzi, i quali già all'epoca venivano ricordati e apprezzati principalmente per opere leggere e umoristiche.
Quando poi ci si accinge a guardare il film, ci si accorge di come di commedia non abbia quasi nulla (benché l'elemento umoristico sia più marcato rispetto ad opere simili dell'epoca, come Detenuto in attesa di Giudizio di Nanni Loy) e che si tratti in realtà di un esponente del filone del Cinema Civile Italiano anche alquanto rigoroso nelle sue posizioni (che nel finale si fanno persino radicali).
Non bisogna però stupirsene, in primis a causa dell'estrema versatilità di Risi, del duo di sceneggiatori del resto del cast artistico, i quali hanno sovente lavorato anche in opere decisamente più "serie" (il virgolettato è d'obbligo, visto che anche gli exploit più leggeri di leggero spesso avevano solo il tono); in secondo luogo, non va mai dimenticato come la Commedia all'Italiana di fatto sia figlia del Neorealismo, il quale, sul lungo periodo, ha finito per plasmare lo stesso Cinema Civile, non tanto nella messa in scena quanto nell'impegno delle tematiche trattate.
Commedia e film d'impegno morale e civico altro non sono, dunque, che due frutti del medesimo ramo e talvolta il confine tra i due è stato (ed è in realtà tutt'ora) labile. E In nome del popolo italiano è qui a testimoniarlo.
Se molti esponenti del filone si sono dimostrati ancora attuali, In nome del popolo italiano si è dimostrato anche profetico, con la precognizione del berlusconismo e suoi orrori, i quali già nel 1971 erano palesi nella società italiana. La trama, in tal senso, è altamente esemplificativa: il dottor Bonifazi (Tognazzi). da poco promosso a giudice istruttore, si ritrova a dover investigare sulla morte della giovane e bella prostituta Silvana Lazzorini (Ely Galleani, all'epoca già vista in
Una Lucertola con la Pelle di Donna di Fulci). Il principale indiziato sembrerebbe essere Lorenzo Santenocito (Gassman), rampante imprenditore con più aziende che capelli in testa.
La dinamica è quella dello scontro tra personalità opposte: da un lato un magistrato integerrimo e guidato unicamente dal suo senso civico, dall'altro un imprenditore spregiudicato ed edonista, nonché ex fascista arricchitosi alla borsa nera durante la guerra; ed è bene mettere subito le cose in chiaro: nello scontro di bravura tra Tognazzi e Gassman, è il primo ad uscire vincitore, non per altro perché la scrittura gli permette di interpretare un personaggio per lui in parte inedito, ossia un idealista distrutto dalla deriva immorale di quella società che è chiamato a tutelare, il cui sguardo triste trasmette una malinconia empatica. Gassman, pur divino, non fa altro che ripetere una delle sue maschere predilette, soprattutto nel cinema di Risi.
Lo scontro, in sostanza, è quello tra magistratura e classe dirigente corrotta e già qui l'ombra lunga degli scandali della squallida Seconda Repubblica si allunga a ritroso, resa ancora più cupa dalla centralità del personaggio della prostituta, sorta di olgettina ante literam usata da Santenocito per oliare i rapporti con i partner di affari.
E' poi lo stesso Santenocito a rappresentare un paradigma perfetto del tipo di imprenditore che Berlusconi porterà alla ribalta a partire dalla fine del decennio, ossia uno spregiudicato in grado di usare qualsiasi strategia pur di prosperare e il cui motto è letteralmente "la corruzione è progresso"; un uomo che vive impunemente usando i valori tradizionali come paravento per darsi un tono di superiorità morale, solo per sguazzare nell'autoindulgenza più pura: lo vediamo affermare di essere un uomo di famiglia, ma poi scarica il padre quando capisce che non può utilizzarlo per costruirsi un alibi; allo stesso modo, ha una figlia che ha la stessa età dell'amante e alla quale inculca un moralismo anti-sessuale ilare nella sua ipocrisia.
Ipocrita è appunto la parola giusta per descriverlo, manipolatore la qualità che meglio gli si addice, tanto che cerca persino di convincere Bonifazi di una comunanza che in realtà non hanno. Risi e gli sceneggiatori lo vestono da romano e forse mai maschera fu più calzante, con gli atteggiamenti narcisisti e immorali che ricordano davvero quelli di un archetipo della Roma pagana.
Bonifazi è ovviamente una nemesi, un giudice irreprensibile il quale si ritrova ad aver a che fare con un campione di impunità. Laddove il suo nemico prospera, lui vive una vita tutto sommato agra, reduce da una separazione che lo ha svuotato di ogni forma di affetto, con lo spettro della moglie fedifraga pronto a riaffacciarsi solo per sfruttarlo; e, prima ancora, perso in uno stato di depressione dovuto all'alienazione verso quella società chiamata a difendere.
Una società non diversa da quella che Risi, Age, Scarpelli e tutti gli altri autori della Commedia all'Italiana descrivevano, popolata da zotici e sfruttatori, pagliacci pronti a tutto pur di salvarsi e imbecilli dalla parlata veloce, dove la maleducazione la fa da padrone e il gergo aulico è usato come espressione di superbia, unico aspetto nel quale il film è invecchiato male: oggi l'imprenditore corrotto e ammanicato raglierebbe versi incomprensibili riguardo alla libertà, con un corredo di parolacce e insulti gratuiti.
Se i due poli opposti dello scontro ideologico tra morale e immoralità sono due persone tutto sommato posate, del tutto caricaturali sono coloro i quali vengono chiamati a ricoprire il ruolo del "volgo". In prima istanza, questo è ricoperto dai genitori della vittima, due spiantati che adoperano una patina di ricercatezza per coprire il buco nero umano e morale del quale sono fatti: poeta il padre, insegnante di musica la madre, gioiscono del fatto che la figlia si vendesse perché così garantiva loro un buon tenore di vita, attaccati più alla materia che a quei valori che, come tutti gli Italiani, tanto decantano.
Sono queste solo le due maschere più espressive di quel popolo italiano del titolo, in nome del quale è amministrata la legge; il quale non solo non ha coscienza di legge e morale, ma se ne infischia anche della differenza basilare tra bene e male.
Un popolo che vive in una nazione che viene sfregiata e devastata dall'azione degli imprenditori, i quali non hanno coscienza del loro male, né vogliono averla. Vediamo già nelle prime scene gli sversamenti illeciti delle industrie di Santenocito in mare, i quali avvelenano il pescato; assitiamo, più avanti, allo sfacelo causato dai lavori alle strade, le quali crollano con un nonnulla. Il tutto mentre i cittadini si voltano dall'altra parte, al pari dei rappresentanti delle istituzioni.
Uno scontro particolare avviene tra Bonifazi e un pubblico ministero; nell'Italia pre-riforma del codice di procedura penale, la figura del giudice istruttore era delegata alle indagini, mentre il PM a sostenere l'accusa. Ma quello descritto nel film è un semplice burocrate che si compiace delle condanne richieste, anch'egli un residuato del Fascismo il quale usa e abusa il potere solo al fine di trarne un vantaggio personale, praticamente un Santenocito istituzionalizzato; tanto che è lo scontro tra i due che, idealmente, fa crollare il palazzo di giustizia, simbolo di come la corruzione delle istituzioni e la relativa conflittualità tra poteri porti alla distruzione effettiva del concetto di giustizia; anch'essa una posizione che ancora oggi risuona sanguinante.
Risi e colleghi già nel 1971 fanno così sorgere quel quesito che dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino è diventato quanto mai urgente, ossia: perché un membro del potere giudiziario dovrebbe essere ligio al proprio dovere?
Il quesito, ancora più scottante, ad esso connesso è: che senso ha amministrare la giustizia in una società che vive e prospera basandosi quasi esclusivamente sullo sfruttamento coatto del prossimo e sull'impunità generalizzata? Che senso abbia, in sostanza, battersi per l'onestà e la giustizia in un luogo dove sono due concetti alieni, quasi sempre usati solo per darsi un tono di superiorità e mai davvero osservati. Risi e gli sceneggiatori non rispondo direttamente, ma lasciano intuire una risposta in quel finale apocalittico ed estremo.
Si scopre come Santenocito sia in realtà innocente nonostante non possedesse un alibi, e che la ragazza si sia suicidata, come confessato in uno dei suoi quaderni (caso ha voluto che avesse una copertina rossa...); ma Santenocito non è di certo un innocente, reo di corruzione, oltre che di avvelenare l'ambiente e mettere a repentaglio la vita dei comuni cittadini con costruzioni abusive e pericolanti, situazione anch'essa sopportata in nome di un finto progresso e del benessere dei soli imprenditori spacciato per benessere di tutta la nazione. Bonifazi decide così di bruciare quel quaderno al fine di ottenere una condanna per il suo nemico.
Una decisione che farebbe drizzare i capelli in testa a qualsiasi giurista e di per se stessa altamente immorale. A renderla morale è però il contesto nel quale essa viene presa, dato sia dall'intero film che dall'ultimo atto.
Nella sequenza finale, Tognazzi attraversa un città dapprima deserta a causa della partita Italia-Inghilterra che monopolizza l'attenzione di tutto il popolo. Un popolo che ritiene che il mondo debba fermarsi per il calcio, situazione già cinquant'anni fa a dir poco paradossale. La città è così un deserto in uno stato di sfacelo, popolato da senzatetto lasciati a sé stessi e insozzato da una coltre di immondizia.
Quando la partita finisce, il volgo si riversa in strada per festeggiare la vittoria della nazionale a suon di violenza gratuita e parolacce assortite. E' qui che Bonifazi vede nella gente comune Santenocito, fenomeno che può avere due interpretazioni.
La prima è come la sua ossessione per un farabutto impunito lo abbia portato oltre ogni limite, finendo per plagiarlo, per comprometterne lo stato psicologico oltre i limiti della paranoia. La seconda è come dentro quel popolo si celi, in potenza, quella germa di menefreghismo mista a cattiveria propria del Santenocito: se un personaggio del genere fosse lasciato libero, la sua impunità rappresenterebbe il trionfo del malaffare e il suo esempio finirebbe per riplasmare l'intera società a sua immagine e somiglianza. Fermare una tale deriva è un dovere non solo per per la tutela delle istituzioni, ma anche per la tutela di quei valori che, almeno sulla carta, sono alla base della Repubblica.
Un finale provocatorio e scandaloso, quasi una chiamata alle armi per quel Popolo Italiano del titolo, il quale non deve lasciarsi sedurre da figure del genere, non deve lasciare che l'immoralità lo fagociti, non deve permettere che i suoi stessi interessi cedano di fronte al profitto di una singola categoria di criminali.
Un monito, inutile dirlo, rimasto inascoltato.
Se cinquantatré anni fa In nome del popolo italiano era una fotografia tagliente, oggi è un avvertimento sempre valido sul quale si è posata una coltre di amarezza simile a quella che ammanta Bonifazi. Rivederlo con la coscienza di quanto avvenuto in Italia negli ultimi trent'anni è quasi sconsolante. Rivederlo in un periodo nel quale la deriva anti-giudiziaria e pro-criminale ha ripreso forza e sembra si stia definitivamente concretizzando è a dir poco disturbante. Questo perché ha finito per ottenere un valore che nessuno dei suoi autori avrebbe mai sospettato, tantomeno voluto.