mercoledì 31 luglio 2024

Un Tranquillo Posto di Campagna

di Elio Petri.

con: Franco Nero, Vanessa Redgrave, Georges Géret, Gabriella Grimaldi, Madeline Damien, Valerio Ruggeri, Rita Calderoni, Arnaldo Momo.

Italia, Francia 1968




















L'ottimo esito di A Ciascuno il Suo confermava non solo il talento di Elio Petri, ma anche la sua capacità di far presa sul pubblico, così suo status di autore impegnato nel civile. Ma nel 1968 il grande regista compie una mossa impossibile da presagire.
Mentre per le strade d'Italia e del mondo impazzava la rivoluzione, Petri decide di dirigere un film lontano da ogni connotazione politica, uno strano film sull'arte, sul sesso e sulla morte intitolato Un Tranquillo Posto di Campagna come a sottolineare la sua volontà di allontanarsi (anche solo temporaneamente) dai tumulti politico-sociali. Leggenda vuole che Franco Cristaldi volesse affidare il progetto di un thriller paranormale nientemeno che al padre del thriller nostrano Mario Bava, ma che poi Petri sia subentrato prendendone il posto e mettendo mano a soggetto e sceneggiatura assieme a Luciano Vincenzoni e Tonino Guerra. Bava avrebbe certo saputo creare un perfetto meccanismo di tensione, Petri, dal canto suo, usa lo spunto della ghost story per parlare di altro e crea un'opera astratta certamente affascinante, ma anche magistralmente irrisolta e a tratti decisamente noiosa.



















Leonardo Ferri (Franco Nero) è un pittore milanese in crisi creativa. Di punto in bianco, inizia ad avvertire il richiamo di un'isolata villa nella campagna veneta. Con l'aiuto dell'agente e amante Flavia (Vanessa Redgrave) riesce ad acquistarla e decide di trasferirvisi per ritrovare l'ispirazione perduta, ma una volta qui inizia ad essere testimone di strani eventi, i quali lo portano a scoprire come fosse la dimora di una giovane contessa ninfomane (Gabriella Grimaldi).





















Una trama da gotico classico che Petri utilizza come puro pretesto; la sua è infatti una riflessione sull'inscindibilità dei concetti di Eros e Thanatos nella pulsione creativa, ingabbiati all'interno del personaggio di Leonardo, al solito complessato dal punto di vista sessuale. 
Una sessualità, la sua, vorace, che si manifesta tanto nel rapporto morboso con Flavia quanto nell'ossessione per la pornografia, consumata a vagoni e perennemente nei suoi pensieri. Se il suo approccio con il sesso è libero e quasi uno sfogo per quella vena artistica che sembra invece essersi prosciugata, Flavia, d'altro canto, lo asseconda solo per sfruttarne i talenti, per adoperarlo come mano d'opera nel mercato dell'arte, intrattenendo un rapporto a metà strada tra la padrona e una figura materna incestuosa e possessiva. Non per nulla, nella prima scena, in realtà onirica, Leonardo è prigioniero di una Flavia che gli sputa in faccia i frutti della tecnologia capitalista e lui si libera per ucciderla, solo per poi affermare, in una scena successiva, di essere schiavo del sistema economico che lo porta a produrre beni di consumo solo nominalmente considerati come arte, statuizione con la quale Petri affossa ogni pretesa di santità degli artisti.




















Il sesso, per essere precisi l'ossessione sessuale, diventa la forza trainante dietro l'esplosione artistica e la ricerca della soddisfazione dei sensi il necessario mezzo per perorarla. Appena arrivato nella villa, vediamo Leonardo correre dietro al seno della giovane Egle, inseguito per buona parte del film e trovato puntualmente quando cerca spiegazioni per gli strani fenomeni paranormali. Il seno, l'organo che sostiene la vita, diviene così simbolo dell'ispirazione artistica, qui inseguita ma mai conquistata.
Come l'orgasmo rappresenta una piccola morte, anche la concretizzazione dell'atto artistico richiede una morte; Eros e Thanatos, d'altro canto, non sono che due facce della stessa medaglia, da cui il rapporto ossessivo con la contessina Wanda. Un rapporto sessuale che non può essere consumato e che si sostanzia in serie di afflati puntualmente interrotti, con una pulsione che resta sempre inappagata. Visione sfuggente, tanto attraente quanto astratta, il corpo della ragazza non viene mai davvero concupito.
Per Petri, il rapporto con l'ispirazione è così ondivago e ambiguo, un'ossessione pulsante che fa della ricerca dell'appagamento il suo fine, ma che resta sempre castrata; la libido, di conseguenza, è elemento necessario alla creazione, ma il suo sostanziarsi porta ad una forma di distacco dalla realtà, da una pazzia la quale è forse l'unico stato nel quale un artista può davvero fecondo, trasformarsi in una macchina al servizio del capitale per produrre in serie le sue opere per il profitto altrui. O forse è proprio quella necessità di produrre che porta alla pazzia, in una lettura marxista dell'afflato creativo.
Laddove la metafora è chiara, la costruzione della vicenda come quella di un horror sovrannaturale vero e proprio mostra i limiti del grande autore quando viene chiamato a confrontarsi con un genere che necessita invece la comprensione e l'assimilazione delle sue "regole".



















Non c'è mai tensione in Un Tranquillo Posto di Campagna; come ghost story gotica risulta davvero noiosa, limitandosi ad imbastire la solita sarabanda di strani rumori e oggetti che cadono, la quale già negli anni della sua uscita era stravista. Petri non riesce a fare paura, non riesce a tenere sul filo del rasoio e la visione sovente scade nel soporifero, aggravata anche da un antefatto anch'esso blando, con la storia della contessina il cui unico colpo di scena è debole.
Laddove la sua regia risulta vincente è invece nella costruzione di un'atmosfera onirica e astratta, anche per merito della bella colonna sonora, cacofonica e eterea, di Ennio Morricone. 



















Benché apprezzato e riverito da molti, Un Tranquillo Posto di Campagna è quasi un passo falso nella carriera di Petri, con il quale dimostra in parte la sua versatilità, ma non la sua capacità di adattarsi ad un cinema che per necessità deve essere votato alle regole del genere.

lunedì 29 luglio 2024

Banditi a Milano

di Carlo Lizzani.

con: Gian Maria Volonté, Don Backy, Ray Lovelock, Ezio Sancrotti, Piero Mazzarella, Laura Solari, Carla Gravina, Margaret Lee, Tomas Milian.

Italia 1968
















Il 25 settembre 1967, a Milano, la filiale della Banca di Napoli sita nei pressi di largo Zandonai viene presa d'assalto da un gruppo di banditi, la cosiddetta "Banda Cavallero", già noto per le feroci rapine a mano armata. A seguito del furto, la banda si lancia ad alta velocità per le strade, raggiungendo vette di 130 km/h, ingaggiando un inseguimento da film con la polizia e arrivando ad aprire il fuoco di punto in bianco, uccidendo tre persone, causando la morte accidentale di una quarta e lasciando dietro sé una scia di feriti. Alla fine del conflitto, una folla inferocita cerca di linciare uno dei rapinatori, mentre altri due vengono ritrovati giorni dopo e a chilometri di distanza, consegnandosi alle autorità come se nulla fosse.
Un episodio che suscita immediatamente scalpore e che faceva da cartina di tornasole alla violenza di strada che in quegli si andava intensificando, anche a causa di un ritrovato benessere economico e all'insorgere della "cultura del vizio".
Fenomeno che colpisce Dino De Laurentiis, il quale decide di trarne un film in men che non si dica. "Banditi a Milano" è così una sorta di instant-movie che ritrae in modo fulmineo sia il fenomeno alla base che l'episodio della rapina, nel quale Carlo Lizzani tenta di far confluire una sensibilità di genere con il rigore cronachista del cinema di inchiesta, a tratti riuscendoci a pieno.




Banditi a Milano è quindi una via di mezzo tra cronaca e rielaborazione filmica vera e propria; il limite di tutto il film resta purtroppo nella mancanza di equilibrio tra i due elementi, cosa che non avverrà, per esempio, quando Francesco Rosi tenterà un'operazione simile con Lucky Luciano. Lizzani decide di scinderlo in due parti, con una prima para-documentaristica e una seconda di pura fiction.
I primi minuti sono alquanto spiazzanti: con una serie di finte interviste e ricostruzioni artistiche, il regista segue l'attività di un ufficiale di polizia interpretato da un giovane Tomas Milian (il quale poi interverrà durante la rapina principale) intento ad illustrare al pubblico l'impennata di violenza all'interno della capitale economica del Paese. Si hanno così delle vere e proprie interviste ai protagonisti del malaffare, come quella ad un rapinatore di vecchio corso che rimpiange i bei vecchi tempi durante i quali i criminali avevano un codice d'onore e persino il tenutario di un night club che illustra il gioco spietato dell'omertà.
Un giochino para e meta filmico che aggiunge davvero poco ad una narrazione il cui fulcro resta nella ricostruzione dei fatti della banda Cavallero e f calare sul tutto una coltre di inutile pretenziosità.




















Centro nevralgico del film è infatti la ricostruzione della rapina, in particolare del furioso inseguimento che ne è conseguito. Anche la seconda parte resta così costruita intorno a tale evento e tutti i personaggi diventano così delle maschere atte a dare vita allo stesso. E' qui che Banditi a Milano trova una sua vera riuscita, ossia nel modo in cui non solo ricostruisce i fatti, ma con il quale caratterizza il capobanda Piero Cavallero.
Nelle mani di Gin Maria Volontè, esso diventa un personaggio sgradevole, un ex aspirante rivoluzionario di sinistra ora convinto viveur che si dà al crimine per foraggiare uno stile di vita edonistico, una vera e propria maschera del milanese rampante affamato di lusso e spregevole nella sua costante ricerca dell'affermazione individuale, quella che in futuro diverrà una macchietta da deridere, ma che qui è un personaggio a dir poco abominevole.


























La regia di Lizzani è anche precisa, soprattutto nella lunga sequenza d'azione, ma paga lo scotto di aver deciso di adoperare un impianto anticonvenzionale in sede di script per narrare un fatto di cronaca talmente sopra le righe da essere vera e propria materia da film di genere. 
La parte para-documentaristica, oltre ad essere inutile, scivola talvolta verso il limite del ridicolo, con le false interviste che aggiungono un che di mockumetaristico ad una narrazione che invece vuole essere sempre seria; senza contare come vada a togliere spazio alla parte di finzione, che risulta per contrasto più autentica, ma castrata da uno sviluppo alla fin fine superficiale, data dall'impossibilità di farvi confluire la tematica sociale e una vera caratterizzazione dei personaggi secondari.













Rivisto oggi, Banditi a Milano assume il valore di testimonianza di un'epoca andata, nella quale il cinema commerciale viveva anche grazie ad una forma di impegno dato dalla sua capacità di saper rielaborare la realtà attraverso una lente iperbolica. Una delle testimonianze certamente più celebri e celebrate, ma non una delle più riuscite.

venerdì 26 luglio 2024

Deadpool & Wolverine

di Shawn Levy.

con: Ryan Reynolds, Hugh Jackman, Emma Corrin, Matthew MacFayden, Morena Baccarin, Rob Delaney, Leslie Uggams, Karan Soni.

Commedia/Azione/Fantastico

Usa 2024

















---CONTIENE SPOILER---

Siano essi produzioni Disney che Sony, tutti gli ultimi film legati ai fumetti Marvel hanno finito per floppare o comunque per essere snobbati dai fans, con ben poche eccezioni. Un trend che dura dal post Avengers Endgame e che in senso lato ha coinvolto persino un successo di cassetta come Spider-Man- No Way Home, subito rivalutato dai fan per il film stupido che di fatto è.
Come se non fosse abbastanza, il trend negativo ha coinvolto anche quasi tutte le serie in streaming e persino le nuove produzioni cinematografiche stanno subendo diversi casini dietro le quinte: Capitan America- Brave New World ha subito talmente tante di quelle sessioni di reshoot da essere diventato un altro film, l'esordio dei Fantastici 4 per il Marvel Studios sta tardando ad arrivare e quel Blade con Mahershala Alì che nessuno ha chiesto o aspetta rischia di essere cancellato da un momento all'altro.


Come fare quindi a rilanciare lo MCU? Semplice, basta prendere un personaggio che tutti amano e usarlo come testa di ponte per una nuova fase. La scelta è caduta su Deadpool, il supereroe preferito di chiunque abbia più di vent'anni e poca pazienza per le panzane supereroistiche o anche solo un senso dell'umorismo a là Porky's, il cui terzo exploit ha finito per diventare un vero e proprio reboot per l'universo Marvel, portando all'introduzione dei mutanti nell'universo principale ora che la Fox è diventata parte integrante del conglomerato Disney e quindi non esiste più il rischio concorrenza. O almeno in teoria...
Ad ogni modo, i film su Deadpool hanno sempre funzionato perché sono stati un one-man-show di Ryan Reynolds, quindi come fare a mediare le esigenze di cassa con quelle (virgolette d'obbligo) "artistiche"? 
Deadpool & Wolverine è in fondo questo, ossia un ibrido tra il senso dell'intrattenimento del sex symbol canadese con la volontà di portare lo MCU fuori dalla fase di stanca. E a Reynolds viene data carta bianca, tanto che si porta Shwan Levy dal set di Free Guy, l'amico di sempre Hugh Jackman e riesce persino ad inserire una caterva di battutacce a sfondo omosessuale, eccessive persino per gli standard dei film di Deadpool. Al punto che la missione, alla fine, bene o male è compiuta.


Bene o male perché questo terzo film è sostanzialmente una operazione metareferenziale tout court, uno sfondamento della quarta parete che dura due ore e che intavola un gioco di rimandi e strizzatine d'occhio con lo spettatore che, a questo giro, non cessa praticamente mai.
Ciò a partire dalla trama: Deadpool ha appeso la tutina al chiodo ed è persino in crisi coniugale con Vanessa, leggi: l'acquisizione della Fox ha messo in stallo i suoi film e lui è rimasto in panchina; è poi frustrato per il fatto che vorrebbe essere parte di un team di supereroi, leggi: vorrebbe entrare nell'universo condiviso. Di punto in bianco, la Time Variant Authority di Loki lo contatta per ingaggiarlo, leggi: la Disney lo ha assunto. Ma ovviamente c'è la fregatura, che consiste nel fatto che il suo universo sta per essere cancellato, leggi: alla Disney non frega nulla degli X-Men della Fox e vuole rebootare tutto, salvando solo il personaggio più celebre. La causa è anche semplice: Logan è stato un successo e nessuno vuole rovinare un finale così perfetto a quella serie di film, leggi al contrario: morto Wolverine, quella linea temporale è spacciata. Deadpool deve quindi trovare un Wolverine di rimpiazzo e rovinare i piani della capo dipartimento Paradox, ossia Bob Iger, intenzionato a distruggere tutto quello che non gli va a genio.



















Se già la premessa è un mix metanarrativo, il culmine lo si raggiunge nel Vuoto, quel "mondo discarica" dove finiscono tutti coloro i quali vengono cancellati dalla TVA, ossia tutti quei personaggi che nel corso degli anni sono stati scartati o rebootati nelle varie produzioni Marvel. Ecco così tornare la Elektra di Jennifer Garner, X-23, il Johnny Storm di Chris Evans in un cameo (è il caso di dirlo) fantastico e persino il Blade di Wesley Snipes, ossia il vero e proprio patriarca dell'epoca d'oro della Marvel al cinema (lo Spider-Man di Tobey Maguire lo avevano già usato), oltre quel Gambit di Channing Tatum figlio di una pre-produzione sfociata nel nulla e che dimostra come il look più amato del ladro cajun sia l'unico degli X-Men a non funzionare su schermo.
La storia diventa così una sorta di vendetta dei film dimenticati/dimenticabili contro lo MCU, praticamente un atto d'accusa verso quel sistema che premia solo chi vuole premiare e che porta a creare, ricreare e ri-ricreare all'infinito sempre le stesse storie, sempre le stesse situazioni, sempre gli stessi personaggi per il sadico gusto di rivendere un usato garantito al pubblico.


















Reynolds non ha però la voglia di andare fino in fondo, di sfasciare quel sistema squallido fatto di remake, reboot e requel e si limita a sfotterlo come farebbe uno sketch del Saturday Night Live; non bisogna neanche biasimarlo, dopotutto anche lui è parte di quel sistema, ha solo avuto la sfrontatezza e soprattutto la grossa fortuna di piegarlo imponendosi con il suo supereroe preferito, non può davvero agire all'infuori di esso usando un personaggi di proprietà della Disney. Semmai fa piacere vedere per una volta un prodotto che riesce ad essere leggero e al contempo a fare il punto della situazione su di un genere, una parodia alla Scream che omaggia, sfotte, in parte decostruisce il filone pur essendone perfettamente parte. E che riesce a concedere a Wesley Snipes una piccola rivincita quando gli fa sfasciare tutto affermando di essere il solo e unico Blade.
Come film di supereroi "classico", invece, Deadpool & Wolverine funziona decisamente meno. La trama è posticcia e i villain sono blandi, con Paradox che è solo un burocrate zelante e Cassandra Nova che vuole spaccare tutto perché si, tanto che persino Emma Corrin si è lamentata di come non le sia stato concesso di darle maggiore caratura. Poco male, perché alla fine il tutto vuole essere giusto una parodia ammiccante che finisce per fare il suo dovere, ossia divertire in modo anche irriverente senza urticare. E il Deadpool al quale Reynolds dà qui vita è il più sboccato che si sia visto, rendendo la visione persino più divertente del solito.




















Il quesito che tutti i fan si faranno è: ma come fa Deadpool & Wolverine a portare i mutanti nello MCU? Ovvio, con un'altra presa per i fondelli: praticamente nella prima scena si scopre che anche nell'universo 616 c'è sempre stato un Deadpool, subito obliato in favore di quello "classico" di Terra 10005. Dove è stato fino ad ora e dove siano stati gli altri mutanti sono anch'essi quesiti di facile risposta, ossia stavano nascosti perché non si potevano mostrare su schermo.
La natura di scherzo dell'intero film è completa e palese fin da subito, quindi; è proprio per questo che alla fine tutto funziona, persino sotto alcuni di quegli aspetti più seri: la dicotomia di carattere tra il looney toon Deadpool e la tragedia ambulante Wolverine porta ad un buddy movie gustoso, con l'alchimia tra Reynolds e Jackman sempre a mille; la regia di Shawn Levy non ha certo la precisione di quella di David Leitch, ma bene o male funziona sempre. 
Alla fine Deadpool & Wolverine non è che uno sketch demenziale atto a parodizzare le derive più bieche del filone. Non è anarchico e punk quanto avrebbe dovuto e forse voluto essere, ma garantisce lo stesso due ore di puro divertimento sarcastico. E sarebbe stato un finale perfetto per tutta la produzione filmica Marvel, cosa che purtroppo non sarà.

sabato 20 luglio 2024

Pom Poko

Heisei tanuki gassen ponpoko

di Isao Takahata.

Animazione

Giappone 1994
















Le due forze trainanti dello Studio Ghibli sono stati i due fondatori, ossia Isao Takahata e Hayao Miyazaki, due autori la cui indole è diversa e persino la relativa formazione ha diversi punti dissonanti. Takahata, in particolare, era famoso come "il regista che non sapeva disegnare" poiché quando ha iniziato la sua carriera presso la Toei faceva parte di quel gruppo di maestranze che non avevano bisogno di una formazione artistica nel campo del disegno o dell'animazione per poter lavorare.
La filmografia dei due, di conseguenza, è ampiamente dissimile, ma quando si tratta di Pom Poko le differenze effettive si contano sulle dita di una mano. In primis poiché lo stesso Miyazaki ha prestato i propri sforzi direttamente nella lavorazione, in secondo luogo e soprattutto perché la tematica ambientalista ricorda molti lavori del blasonato regista.
Ma alla fine Pom Poko resta al 100% figlio della visione artistica di Takahata e la sua riscoperta è utile a comprendere pienamente la poetica di un autore che forse tutt'oggi resta troppo nell'ombra del collega e koai.




I tanuki sono creature del folklore giapponese, simili a cani o ai comuni procioni. I tanuki dei dintorni di Tokyo, in particolare, da decenni oramai vivono come semplici animali, quando in realtà sono dotati di poteri che permettono loro di mutare forma a piacimento. Divisi in tribù, cessano le lotte intestine per fare fronte unico contro un nemico comune: l'essere umano. A causa dell'espansione dell'area residenziale, la costruzione di un new town minaccia l'habitat delle creature, che contrattaccano con vere e proprie azioni di guerriglia.




Pom Poko è essenzialmente la storia di una comunità agreste che si ribella alla cementificazione del territorio, il tutto raccontato con piglio marxista in una narrazione alla Ėjzenštejn dove la forza motrice del racconto non è il singolo, ma l'intera enclave di personaggi.
Ogni singolo tanuki rappresenta un possibile approccio rivoluzionario nella lotta al potere. Il più radicale è quello del guerriero Gonta, braccio armato che si da anche alla guerriglia pur di scacciare gli invasori. Ma quello più vicino alla sensibilità di Takahata sembra essere il giovane Shoukichi, il quale fa della burla la sua arma.
La vera arma, in tal senso, è data dalla superstizione. I tanuki fanno leva sulla paura che l'uomo ha dell'ignoto, in particolare del castigo divino, inscenando una serie di interventi sovrannaturali e persino ricreando alcune leggende metropolitane nipponiche. Lo scontro tra natura e civiltà assume così anche i contorni di una rivincita della spiritualità sommersa dalla razionalità del cemento e del ferro.




Lo scontro tra tradizione e modernità è narrato con un tono diverso da quello drammatico e sanguigno che Miyazaki ha nelle sue opere, configurandosi invece come quello proprio di una forma di amarissima accettazione. Il Giappone, per sopravvivere, ha dovuto trasformarsi, perdere la sua natura e la sua fisionomia per divenire altro, pur restando in fondo lo stesso. Allo stesso modo Takahata ritrae questi tanuki che finiscono per diventare sempre più umani fino a trasfigurarsi totalmente, arrivando persino a comprendere la forza di quei nemici costretti ad una vita di sacrifici, abbracciando loro stessi tale vita, ma restando in fondo fedeli alla propria natura primigenea, come nel ballo finale.
Il periodo storico in cui il film è ambientato è di fatto chiarificatore, ossia gli anni '60, quando la macchina industriale nipponica era in piena espansione, la crisi del Secondo Dopoguerra era stata superata e l'intero paese si avviava verso una fase di prosperità, la quale avrebbe portato alla fine di ogni tradizione. I tanuki finiscono per rappresentare tale tradizione, sia essa quella dell'economia di stampo agricolo che quella della religione shintoista e buddista, abbandonata in funzione di una secolarizzazione totale dei costumi. Non per nulla, utilizzano per l'appunto la superstizione religiosa come arma per scacciare gli umani e spesso i personaggi si lamentano di come in passato venissero adorati come divinità da fedeli ora dimentichi.




Pur tuttavia, Pom Poko (il titolo fa riferimento al calendario dei tanuki) non si concentra totalmente sulla storicità dell'ambientazione, portando in scena anche situazioni moderne; Takahata crea così un ponte tra passato e presente dato dall'uso di immagini della tv a colori e videogame moderni per l'epoca, riuscendo a dare un tocco di universalità alla storia e alla tematica, di fatto pressante nel Giappone degli anni '90 (e oltre) così come in quello degli anni '60.
L'animazione, come da tradizione dello Studio Ghibli, è curata sin nei minimi dettagli e le singole sequenze non mancano mai di stupire, con la cura che si estende anche alle inquadrature più semplici. Ovviamente è la lunga processione degli yokai a stupire per inventiva e perizia tecnica, ma la mano di Takahata e dei colleghi si avvisa in realtà soprattutto nelle singole inquadrature di massa, dove ogni singolo personaggio è intento a compiere un'azione diversa animata in modo certosino, senza che siano usati stratagemmi come animazioni in loop o immagini statiche.




Pom Poko è così un piccolo capolavoro di animazione classica, che affronta con intelligenza una tematica sempre attuale raccontandola con piglio originale e una perizia tecnica ancora oggi invidiabile. Un esempio di grande cinema solo in apparenza infantile.

giovedì 18 luglio 2024

The Bikeriders

di Jeff Nichols.

con: Austin Butler, Jodie Comer, Tom Hardy, Michael Shannon, Mike Faist, Boyd Holbrook, Norman Reedus, Damon Herriman, Beau Knapp, Emory Cohen, Toby Wallace.

Drammatico

Usa 2023












La libertà come una motocicletta, la motocicletta come sinonimo di libertà, un sillogismo che esiste dai tempi di Easy Rider. Ma prima il significato delle due ruote era diverso, nel cinema americano. Prima, almeno da Il Selvaggio in poi, era sinonimo di ribellione, simbolo di una generazione di veri e propri anarchici e anti-sociali che si univano in bande per vivere ai confini della società. Prima degli Hell's Angels, prima della trasformazione in vere e proprie gang; eppure, anche all'epoca i biker erano poco meno che criminali, perdigiorno talvolta violenti il cui fascino era dato praticamente dal fatto che vivessero fuori dagli schemi che la società perbenista imponeva e dalle loro cavalcature.
Jeff Nichols, da sempre cantone in di un'America umana e fin troppo umana, porta in scena quei biker, quella generazione prima dei famosi Sons of Anarchy che però non erano poi tanto differenti da loro. The Bikeriders è così un dramma sul mito delle due ruote che prende spunto da un libro fotografico del 1967, si struttura come una sorta di adattamento di quei volti, quei corpi e quei veicoli; ma che, alla fine della fiera, ha lo stesso difetto di quel film fondativo con Marlon Brando, ossia il dubbio su che effettivo valore morale e umano dare a questa schiatta di ribelli.




Alla base della formazione dei Vandals, alla base della passione per il capobranco Johnny per le due ruote, alla base di tutto c'è il cinema, c'è proprio Il Selvaggio, la cui visione ispira il personaggio di Tom Hardy a dar vita al gruppo. E Hardy, a sua volta, si ritrova nella scomoda posizione di dar vita ad un personaggio che plasma i suoi manierismi su Brando senza far scadere il tutto nella parodia, riuscendoci a malapena.
Ma il punto di vista della storia è duplice, ossia quello di Kathy, interpretata da una camaleontica Jodie Comer, oltre che del giornalista autore del libro Danny, interpretato da Mike Faist. Una cornice narrativa francamente inutile, che aggiunge poco o niente alle immagini e, anzi, talvolta le fa risultare fin troppo ovvie.




Cos'è alla fine The Bikeriders? Poco più di un racconto su come i tempi cambiano, su come l'innocenza dell'età dell'oro venga infangata dalla nuova generazione. Il problema è che la prima generazione dei Vandals non è a sua volta composta da stinchi di santo, visto che le risse sono all'ordine del giorno. Nichols però gioca al rialzo e afferma come la seconda generazione, quella dei reduci del Vietnam, sia peggiore visto che è composta da tossicodipendenti e stupratori, poco importa se si tratta da ex soldati affetti da PTSD. E poco importa che anche quella prima generazione da lui descritta come tale sia in realtà la seconda, storicamente, visto che la vera prima generazione di biker americani era composta da reduci della Seconda Guerra Mondiale. Il manicheismo che ne consegue è assolutorio e infondato, quasi becero nel voler costruire la nostalgia per un passato aureo che di fatto non è mai esistito. 




Il ritratto di questo pugno di personaggi ambigui finisce inevitabilmente per sgretolarsi nel momento in cui lo script non riesce a dare il giusto spazio a tutti, in quello che vorrebbe essere un racconto d'ensamble. A farne le spese sono soprattutto quello interpretato da Michael Shannon, che sta in scena, fiasco di vino alla mano, solo per sproloquiare contro tutto e tutti, oltre che quello di Norman Reedus, il cui valore nel racconto è nullo, serve solo ad avere nel cast un vero biker truccato come un reietto dal set di Mad Max.
La dinamica principale, quella che alla fine resta, è la duplice tra il bello e dannato Benny e la protagonista Kathy, oltre che il loro rapporto con Johnny. Facile è trovare una forma di omosessualità repressa tra Johnny e Benny, quando in realtà il rapporto alla base è quello di due commilitoni, un'amicizia virile vecchia scuola; l'omosessualità, semmai, è alla base, sempre sottaciuta, di altri rapporti nella banda.
Il rapporto tra Kathy e Benny è invece quanto di più stereotipato possibile, con il primo che è praticamente il cliché ambulante del maschio ruspante affascinante proprio perché ai limiti della sociopatologia e la bellissima ragazza di provincia che gli si avvicina perché sessualmente attraente e basta. Si potrebbe parlare di archetipo, ma qui esso è talmente spoglio e crudo da non funzionare. Così come non funziona lo sguardo che Nichols gli posa addosso, perennemente indeciso tra il biasimo e l'assoluzione.




La superficialità della narrazione porta ad un ritratto ambiguo nel senso peggiore del termine; Nichols non sa se restare affascinato da Benny e il suo stereotipo o se condannarlo in quanto "maschio tossico", così come non sa se guardare con effettivo rammarico a quella generazione di biker amiconi dal pugno lesto o biasimarne lo stile di vito auto e etero distruttivo. Il finale enfatizza tale discrasia di intenti, così come la generale mancanza di approfondimento narrativo e psicologico. Tanto che alla fine, l'unico personaggio che ha un effettivo arco narrativo e il cui dramma è davvero avvertibile è quello del "villain" ragazzino interpretato da Toby Wallace: piccolo delinquente figlio della violenza domestica, finisce per essere divorato e riplasmato dal male per divenire egli stesso strumento di violenza.




The Bikeriders finisce così per essere un racconto monco e menzogniero, una rievocazione nostalgica che a tratti ha persino paura della sua stessa falsa nostalgia, che inciampa nei difetti più ovvi del dramma. Per Nichols davvero un passo falso.

lunedì 15 luglio 2024

Immaculate- La Prescelta

Immaculate

di Michael Mohan.

con: Sydney Sweeney, Álvaro Morte, Simona Tabasco, Benedetta Porcaroli, Giorgio Colangeli, Dora Romano, Giulia Heathfield Di Renzi, Giampiero Judica.

Horror

Usa, Italia 2024













---CONTIENE SPOILER---

Con un budget di circa 9 milioni di dollari e un incasso mondiale (ad oggi) di circa 28, Immaculate non è certo stato un successo da strapparsi i capelli, eppure già alla sua uscita in Usa, qualche mese fa, si è molto parlato di questo piccolissimo horror demoniaco. Il perché sembra riguardare più che altro la presenza di Sydney Sweeney, oramai sulla via dello stardom nonostante abbia sotto suo nome praticamente il solo successo di Anyone but You. E la presenza della bellissima starlette è uno dei pochi veri motivi di interesse di un horror che presenta una vera e propria parata di cliché, sebbene conditi da qualche idea interessante e da un'esecuzione non malvagia.



La storia è quanto di più scontato si possa immagine: Cecilia, novizia americana, si reca in un convento adibito a casa di cura nelle campagne laziali per prendere i voti e presto scopre di essere rimasta incinta per miracolo. Un luogo comune abusato dai tempi di Rosemary's Baby, quello della gravidanza diabolica, che quest'anno è stato al centro anche di Omen- Le Origini del Presagio, uscito in patria giusto una decina di giorni dopo dopo Immaculate.
Il film della Sweeney, in compenso, ha la novità di presentare suore sboccate che si lavano con una tunica che lascia intravedere i seni e che fanno feste a base di vino sedute ad un tavolo a forma di croce, come in un revival del nunsploitation anni '70. La verosimiglianza non è certo nelle corde della regia di Michael Mohan e alla fine il racconto regge per altri motivi.




In primis il lavoro degli attori; la Sweeney ha capito di dover dimostrare di non essere solo un bel viso su di un corpo di dea dell'amore e si impegna tantissimo in ogni scena (come accadeva in Madame Web), riuscendo davvero nell'intento di presentarsi come un'attrice vera e propria. Álvaro Morte toglie gli occhiali del professore de La Casa di Carta per indossare la tonaca e sebbene sia troppo giovane per il ruolo, alla fine risulta anche lui credibile. Benedetta Porcaroli fa la suora ex donna di strada con una bocca da fogna e a tratti ruba la scena, mentre tutte le altre attrici risultano davvero in parte nel ruolo delle monache malvage. In compenso, Giampiero Judica mette in imbarazzo ogni volta che apre bocca, visto che non si fa doppiare.




Tutta la tensione si snoda in modo classico: nel convento c'è qualcosa di sinistro, strani rumori, strani fenomeni, strane vecchiette a un passo dalla morte che si comportano in modo strano. Suor Cecilia vaga per i corridoi beccandosi lo spavento di turno, sovente ottenuto con il più classico jump-scare. La regia di Mohan, semmai, riesce ad essere simpatica in primis perché bene o male a tratti azzecca la giusta atmosfera (quando ovviamente decide di non voler sconfinare nel kitsch), in secondo luogo grazie a dei tocchi splatter solitamente alieni negli horror demoniaci mainstream, i quali riescono a introdurre un fattore di shock in una costruzione dell'elemento orrorifico altrimenti sempre convenzionale.
Al di là dello splatter, a sorprendere positivamente sono il risvolto della storia, con la rivelazione sull'effettiva natura della gravidanza, e soprattutto la costruzione delle scene della regia.



Il colpo di scena risiede nel fatto che alla fine di demoniaco non c'è quasi nulla; ad instillare la gravidanza miracolosa è stata la scienza, con il prete di Álvaro Morte che ha deciso di clonare Gesù e farlo tornare sulla Terra prima del tempo; non è chiaro poi se tale piano che non sfigurerebbe in un fumetto sia limitato alla frangia di ecclesiasti che risiedono in quel dato convento o se sia condiviso da tutta Roma; proprio per questo il film è stato accusato di blasfemia, quando di blasfemo non c'è davvero nulla visto che la protagonista legge apertamente il passaggio della Bibbia dove si mette in correlazione tale piano da villain con l'influenza del diavolo. 
Una trovata certamente bizzarra che concede al tutto un alone di necessaria originalità.


L'altro motivo di interesse è la regia di Mohan, che sebbene pecchi in trovate pacchiane, quando si tratta di costruire la singola scena sa come fare, con soluzioni accattivanti come la panoramica che parte dallo specchio per arrivare al corpo martoriato della protagonista nella scena in cui viene azzoppata o quel bel epilogo girato come un primo piano in piano sequenza, che permette anche alla Sweeney di sfoggiare le sue doti di attrice.
Immaculate riesce così nell'intento di essere un horretto tutto sommato godibile. Nulla di rimarchevole o particolarmente memorabile, praticamente un onesto B-Movie stagionale.

venerdì 12 luglio 2024

R.I.P. Shelley Duvall



 1949 - 2024

La si potrebbe ricordare solo come la Wendy di Shining, un ruolo che l'ha certo resa immortale, ma che finisce automaticamente per restringere la carriera di un'attrice che invece ha ricoperto parti importanti in tanto cinema d'autore americano.
Shelley Duvall aveva un volto particolare, certamente lontano da molti canoni di bellezza, eppure a suo modo affascinante. La militanza tra le file dei collaboratori abituali di Robert Altman le ha consentito di avviare una carriera solida, che ha regalato ruoli interessanti in alcune pellicole ad oggi davvero sottovalutate.





Anche gli Uccelli Uccidono (1970)




I Compari (1971)




Gang (1974)




Nashville (1975)




Io e Annie (1977)




3 Donne (1977)




Frankeweenie (1984)




Ritratto di Signora (1996)

lunedì 8 luglio 2024

Beverly Hills Cop- Axel F

Beverly Hills Cop: Axel F

di Mark Malloy.

con: Eddie Murphy, Taylour Paige,  Joseph Gordon-Levitt,  Judge Reinhold, John Ashton, Kevin Bacon, Bronson Pinchot, Paul Reiser, Luis Guzman.

Commedia/Poliziesco

Usa 2024 













Il quarto film delle avventure del detective Axel Foley pare fosse in produzione dalla fine degli anni '90 e la sudditanza nel limbo del development hell non deve stupire, in primis a causa del cocente flop di Beverly Hills Cop III, che nel 1994 deluse sia i fan di Eddie Murphy che quelli di John Landis; non che il primo sequel, diretto da Tony Scott, fosse una degna continuazione di quello che tutt'oggi è uno dei migliori esempi di connubio tra commedia e poliziesco, ma quel terzo film aveva finito per arrancare praticamente in tutto. Il successivo flop di Pluto Nash e la perdita di credibilità di Murphy come superstar avevano posto un freno ulteriore al progetto, il quale sembrava dovesse ripartire una quindicina di anni fa, ma anche allora ci fu un grosso problema, ossia uno script a dir poco orrendo, dove Axel Foley veniva trasformato in un detective taciturno e brutale e gli si affiancava un partner come linea comica, in un'operazione che non avrebbe capito un accidente dello spirito della serie.
Per Murphy, d'altro canto, la riesumazione del suo primo ruolo da protagonista assoluto al cinema era un passo d'obbligo. Oscillando costantemente tra ritorni in auge e cadute di tono, la sua carriera è arrivata al punto nel quale necessita di un progetto per stabilizzarsi definitivamente, pena una pensione non voluta per l'ex ragazzo prodigio del Saturday Night Live.
Axel F arriva ad esistenza solo grazie ai capitali di Netflix, direttamente in streaming e come un legacy sequel che tenta di rivendere al pubblico odierno i fasti del 1984. Paradossalmente, di legacy sequel finisce per avere ben poco, per fortuna.




Gli anni passano anche per il detective cazzaro migliore di Detroit e Beverly Hills e Axel Foley ora ne ha oltre 60, ma di andare in pensione non ci pensa neanche. Dopo l'ennesimo rocambolesco arresto per le strade di Motor City,  viene contattato dall'amico e collega Billy Rosewood (Judge Reinholds) per un nuovo caso; la novità è che questa volta è coinvolta anche la figlia di Axel, Jane (Taylour Paige), avvocato alle prese con l'uccisione di un poliziotto sotto copertura. Per il buon Axel è quindi è arrivato il momento di tornare a L.A.




Un legacy sequel dove gli elementi essenziali del filone finiscono quasi per mancare: Foley non è un vecchio alienato in un mondo che non riconosce e al quale deve dimostrare di non essere obsoleto, non c'è la riunione nostalgica dei vecchi personaggi a inizio o a metà film, i personaggi non chiosano su come "le cose non si facciano più così" se non in minima parte, non c'è la riproposizione di elementi cult del primo film riportati meccanicamente per creare un artificioso effetto nostalgia; e quando i riferimenti al passato ci sono, sono innocui, come i titoli sulle note di The Heat is On, la gag alla reception dell'hotel di lusso o quell'epilogo che serve solo a far tornare insieme il trio di protagonisti in un'unica inquadratura, giustamente lasciata in coda perché mai davvero essenziale.




Quando i volti noti ritornano, il tutto viene fatto in modo essenziale, dando loro il giusto posto nella storia: il personaggio di Paul Reiser è ora divenuto capitano, Billy Rosewood viene introdotto come motore degli eventi e poi tenuto da parte fino all'ultimo atto, Taggart ritorna dopo la sua assenza nel terzo film e nonostante l'età anagrafica non lo consenta risulta lo stesso credibile come capitano del distretto di Beverly Hills; persino Bronson Pinchot, la cui inclusione era la più rischiosa, finisce per avere un ruolo gustoso, che aggiunge perfino quella tendenza eterosessuale al personaggio la quale risulta inedita e divertente. Quando poi arrivano le new entry, sono dei volti che non si vedono mai abbastanza, come Kevin Bacon e soprattutto quel Joseph Gordon-Levitt che sembrava letteralmente sparito negli ultimi anni ma che dimostra di avere anch'egli ancora grinta.
Per il resto, Axel F è in tutto e per tutto una quarta avventura per il poliziotto dai modi spicci e la lingua veloce, tanto che sarebbe potuto tranquillamente essere stato prodotto a suo tempo con ben pochi aggiustamenti. L'unico dei quali riguarda il personaggio di Jane, il quale già qui risulta un po' forzato a causa della sua età anagrafica, che in teoria avrebbe dovuto portare a farla apparire già nel terzo film, dove però non c'era traccia né di lei, né della madre. Per il resto è anzi un'aggiunta interessante.




Il rapporto padre-figlia a tratti sostituisce quello del classico buddy cop movie, con Axel che si confronta con il lascito della sua carriera; una figlia ora donna in carriera ultratrentenne la quale ha rinnegato il padre, reo di averla abbandonata. Abbandono in realtà dovuto, come da copione, per proteggerla, il che getta la luce della maturazione sul personaggio, al quale, oltre alla rettitudine che lo ha sempre contraddistinto, ora si aggiunge l'abbraccio della responsabilità genitoriale.
Per il resto, per fortuna, Axel Foley è sempre lo stesso e Eddie Murphy riesce ancora ad incarnarlo con tutta l'energia necessaria.




Lo script approvato da Murphy non offre chissà quali particolari spunti di interesse. La formula è sempre la stessa, cioè quella di un poliziesco vero e proprio con all'interno un personaggio da commedia farsesca. La storia ha anche qualche buco, come il fatto che Foley decida di non usare le registrazioni dell'effrazione al deposito della polizia per convincere Taggart della bontà della sua intuizione; e tutto è la solita parata di sbirri corrotti dove i super buoni si contrappongono ai super cattivi senza che si voglia fare un mistero dei motivi del tutto. Questo perché alla fine quello che conta è la serie di gag e il contorno action.
Murphy ha ancora grinta e il suo solito repertorio di voci buffe e battute sagaci bene o male regge; Foley è ancora simpatico e sebbene nessuno sketch sia davvero memorabile alla fine funzionano tutti. La vera sorpresa è la direzione: affidata ad un regista che fino ad ora ha diretto praticamente solo spot della Apple, la regia riesce a valorizzare i valori produttivi delle sequenze d'azione e persino l'inseguimento in elicottero, che avrebbe potuto essere il tallone d'Achille della messa in scena, funziona per spettacolarità, anche se vien da chiedersi cosa avrebbero tirato fuori Stahelski e Leitch con in mano una sequenza del genere.




Axel F riesce così in una duplice impresa che sembrava persa in partenza, ossia riportare in auge il personaggio e dare un sequel dignitoso all'originale; alla fin fine, è proprio questa quarta avventura, per tardiva che sia, a rappresentare il miglior sequel al cult del 1984.