venerdì 30 agosto 2024

Trap

di M.Night Shyamalan.

con: Josh Hartnett, Ariel Donoghue, Saleka Shyamalan, Alison Pill, Kid Cudi, Hayley Mills, Jonathan Langdon, Russ.

Thriller

Usa, Regno Unito, Yemen 2024













Era impossibile per Shyamalan continuare ad usare la sua canonica visione cinematografica dopo l'exploit di Bussano alla Porta; era impossibile continuare a usare il famoso "Shyamalan twist" dopo che tale strumento narrativo aveva trovato il suo apice nella sua totale assenza. Era quindi normale un cambio di rotta per il suo nuovo film, che Trap di fatto rappresenta.
Una nuova rotta che in realtà altro non è se non un ritorno al modello filmico che più di ogni altro lo ha ispirato. Perché se è vero che nei primi anni duemila il celebre regista era considerato come "il nuovo Steven Spielberg", in realtà il suo cinema di stampo thrilling deve chiaramente il suo imprint originario al padre del "genere", ossia l'immortale Alfred Hitchcock. E Trap, pur al netto di qualche caduta di stile e di tono, rappresenta tutto sommato un bel omaggio al Re del Brivido.


















Un omaggio scisso in tre atti distinti. Il primo altro non è se non una variazione di Frenzy, dove il punto di vista coincide con quello dell'assassino, con il quale lo spettatore è così forzatamente chiamato ad identificarsi. Il secondo, più ordinario, ricorda in parte Nodo alla Gola, con lo spettatore che deve ora patteggiare per un improbabile eroe improvvisato alle prese con la risoluzione della situazione. Un terzo reminiscente della tematica psicoanalitica di Psycho, dove i giochi si chiudono, non senza un finale aperto.
Tre punti di vista diversi, tre costruzioni differenti per un'unica storia la quale finisce per essere frammentaria, con uno spunto intrigante che viene declinato non sempre nel migliore dei modi.


















La prima parte, per forza di cose, è la più interessante. Sono tutto sommato pochi i thriller nei quali è il cattivo ad essere il centro di interesse e punto di vista principale e nei quali, di conseguenza, lo spettatore finisce per percepire il suo stato di stress, da cui l'interesse che Frenzy ancora riesce a suscitare. Tuttavia, Shyamalan si dimostra fatalmente parco nella costruzione della tensione, lasciando spesso fuori dalla porta le occasioni migliori per portare sul filo del rasoio chi osserva; la tensione si limita ad un pugno di scene le quali si risolvono sempre in un nulla di fatto e sebbene la regia cerchi costantemente di renderle efficaci, non sempre ci riesce.

















La seconda parte è per forza di cose la più riuscita, data anche la sua convenzionalità. La suspense regge bene e la storia assume persino connotati metatestuali, con il regista che al pari del protagonista "porta a spasso" la figlia, la bella e tutto sommato talentuosa Saleka Shyamalan, già piccola pop-star che sfoggia buone doti attoriali. E' in questa parte, però, che lo script mostra un po' la corda quando inanella una serie di trovate improbabili, come l'uso dei social media e, va detto, anche e proprio la trasformazione della cantante in novella eroina.
La terza è sostanzialmente una coda nella quale lo script fa un il punto della situazione, chiarendo la caratterizzazione del protagonista e la dinamica che ha portato alla trappola del titolo. Una risoluzione tutto sommato simpatica e coerente con la tematica portante, ma nella quale si affaccia nuovamente lo spettro della convenzionalità, dovuto in questo caso al background del protagonista.



















Alla fine Trap intrattiene a dovere, ma da Shyamalan ci si aspetta ovviamente di più, visti soprattutto i suoi ultimi exploit. Qui il mestiere è alto, ma alla fine a risaltare è unicamente la performance di Josh Hartnett, che finalmente alle prese con un personaggio interessante e nuovamente nei panni del protagonista più dimostrare un talento in realtà mai neanche sospettato. Il resto, purtroppo, è pura routine.

lunedì 26 agosto 2024

Alien: Romulus

di Fede Alvarez.

con: Cailee Spaeny, David Jonsson, Isabela Merced, Archie Renoux, Aileen Wu, Spike Fearn.

Fantascienza/Horror

Usa, Regno Unito 2024















---CONTIENE SPOILER---

Ha davvero senso fare un legacy sequel per Alien?
I legacy squel o requel o come li si voglia chiamare sono, per loro stessa definizione, una vera e propria riesumazione di un film o di una serie di film che hanno avuto un grosso successo di pubblico, che magari hanno anche segnato l'immaginario collettivo per un dato periodo, ma che, per un motivo o per l'altro, nel corso degli anni sono spariti, in maniera più o meno marcata, dalla coscienza collettiva. Più è grossa tale assenza, più il successo e persino la riuscita del revival sono assicurati, non per nulla i più celebri del filone sono stati quelli di Top Gun, Ghostbusters e Scream.
Ma l'alieno portato al cinema da Ridley Scott nel 1979 e la sua successiva incarnazione di James Cameron del 1986 non sono mai davvero scomparsi dalla memoria collettiva: è da 45 anni che tra film, videogame, romanzi e fumetti la testa falliforme di Alien continua a spuntare con regolarità nella cultura pop, in quel luogo della coscienza collettiva dal quale non è mai andato via.
Perché dunque un legacy sequel? Perché, da un punto di vista strettamente commerciale, è la mossa più sensata per riportare i fan a comprare il biglietto e per introdurre i neofiti alla serie. La saga di Alien ha infatti subito diversi brutti colpi nel corso degli anni in termini di apprezzamento: si parte dal flop (più che meritato) di Alien- La Clonazione nel 1997, il successo relativo del cross-over Aliens vs. Predator nel 2004 e del suo inguardabile sequel del 2007, si arriva all'accoglienza deludente riservata a Prometheus e Alien: Covenant. La parola d'ordine e ridare al fanbase ciò che il fanbase vuole, ossia, nella mentalità dei produttori interessati solo alle vendite e con una visione davvero ristretta delle cose, ridare loro quelle immagini, quei simboli, quell'estetica che li fece innamorare del franchise decenni addietro.
La scelta di Fede Alvarez come regista non stupisce, di conseguenza, proprio lui che è salito alla ribalta con quello pretenzioso remake di The Evil Dead nel quale comunque dimostrava di avere mestiere; Alvarez ha poi ammesso candidamente di aver accettato l'incarico solo perché fan del videogame Alien- Isolation piuttosto che della serie di film, dimostrando quello spirito nerd che tanto fa gola agli executives.
Fatto sta che rifacendosi totalmente al lavoro di Scott e di Cameron, Alvarez porta a casa la pagnotta con un nuovo capitolo certamente dignitoso, ma anche privo di qualsivoglia forma di ambizione e creatività.



















Ogni singolo film di Alien ha una sua identità, persino quelli decisamente non riusciti riescono ad essere memorabili per il loro lato stilistico-estetico. Romulus invece altro non è se non un best of di quanto visto in passato, inserito all'interno di una storia solo apparentemente dotata di spunti originali e a sua volta allungata malamente a quasi due ore di durata.
Una storia che per la prima volta nella serie mette al centro dell'azione un gruppo di ragazzi: circa vent'anni dopo il primo film, su di una colonia mineraria della Weyland-Yutani, la giovane Rain (Cailee Spaeny) è letteralmente schiava della compagnia e cerca di fuggire dal suo giogo assieme al suo androide "fratello" Andy (David Jonsson). L'opportunità si presenta quando il suo spasimante Tyler (Archie Renaux) la convince a rubare delle capsule criogeniche da un relitto stranamente arrivato nell'orbita del pianeta; questo si scopre ben presto essere il relitto della stazione di ricerca Romulus, infestata dai celebri alieni.
Sembrerebbe una storiella originale, quantomeno all'interno del franchise, ma ci si accorge subito di come lo spunto sia praticamente quello di Man in the Dark, solo con lo xenomorfo al posto dell'anziano marine incazzato. Alvarez ricicla dal suo passato anche questo così come praticamente tutto il resto.




















Il giochino che solitamente si fa quando si guarda un legacy sequel qui raggiunge una nuova vetta, visto che non c'è praticamente nessun singolo elemento ad essere davvero nuovo e tutto il lavoro di scrittura e messa in scena si può riassumere in una parata di citazioni e rimandi. La scenografia è praticamente ricalcata su quella del primo film, così come la fotografia, lo score musicale e persino gli effetti sonori. Nulla viene aggiornato, la tecnologia usata dai personaggi diviene così retro-futuribile, basata com'è sui sistemi degli anni '70, retrodatando il film ad una sorta di limbo nel quale il mondo di Alien sembra perso (cosa che funzionava in Isolation per il semplice fatto che lì la storia è ambientata solo poco tempo dopo il primo film).
Con un look così orgogliosamente derivativo, Romulus perde incontrovertibilmente la sua identità, la quale si adatta a quella di una semplice imitazione, un giochino cinefilo da fanboy che si sostanzia, nel corso di circa due ore, nella volontà di caricare il film con tutte le citazioni possibili e immaginabili. Abbiamo così le inquadrature più celebri prese dal passato e inserite qui a forza (e spiattellate già nel trailer e nelle immagini promozionali, per rassicurare i fan), tra le quali per una volta spunta anche il celebre primo piano a due di Alien 3, sequel tutt'oggi sin troppo bistrattato; i dialoghi talvolta sono presi di peso e semplicemente trascritti mettendoli in bocca a nuovi personaggi, come il mitico "Get away from her, you bitch!" che, ricontestualizzato, diventa squallido e ridicolo; l'intera struttura del film ricalca quella del capostitpite, con tanto di quarto atto e messaggio di rapporto della protagonista a fare da epilogo; c'è lo scontro con una nuova forma di vita aliena come in Alien- La Clonazione, ma qui il design del mostro è talmente blando da sembrare l'opera di un bambino che ha preso la testa del pupazzetto dell'ingegnere di Prometheus e l'ha incollata sul corpo mutilato e scolorito di quello di uno xenomorfo, vero affronto fatto da Giger nel quarto film; verso la fine compaiono a sorpresa gli effetti laser visti nell'astronave aliena del 1979 e persino le celebri Reebok che Ripley sfoggia in Aliens, giusto per non farsi mancare nulla.



















La connessione con il primo film è poi claudicante e forzata: si stabilisce nella prima scena come l'alieno portato a bordo della Romulus sia quello eiettato da Ripley fuori dalla Narcissus, ma per qualche motivo lo si ritrova a fluttuare tra i resti della Nostromo, che dovrebbero essere ad anni luce di distanza; ciò al solo fine di (letteralmente) gettare in faccia allo spettatore un pezzo di acciaio con la scritta Nostromo.
L'unica sequenza nella quale Alvarez sembra voler davvero fare qualcosa di nuovo è quella della fuga a gravità zero verso la fine del film, la quale però finisce per ricordare non solo la fuga nei corridoi allagati in La Clonazione, ma anche alcune sequenze di Dead Space. A voler proprio essere buoni, gli si può riconoscere il merito di aver messo su grande schermo la nascita di un Alien adulto, che qui esce da un bozzolo, ma è davvero troppo poco per parlare di una vera novità.
E poi c'è la riesumazione di Ian Holm, digitalizzato per interpretare una copia di Ash a quattro anni dalla sua morte, cosa che davvero si sarebbe potuta evitare e che viene inanellata anch'essa solo per compiacere i fan.
Come sempre, tutte le citazioni, i rimandi e le "ricalcature" sono riportate in modo meccanico, senza dare loro un valore specifico nella storia, non sono che una serie di strizzatine d'occhio che così risultano anche irritanti.





















In circa due ore non c'è davvero un attimo nel quale Alvarez decida di rischiare, di creare davvero, di dare qualcosa di anche solo vagamente nuovo allo spettatore. Gli elementi originali sono così praticamente due: i personaggi non usano il fuoco contro gli alieni, ma il liquido criogenico, trovata che davvero scompagina tutto, non c'è che dire; e l'altra è l'innalzamento della soglia dell'inclusivismo insensato: l'androide Andy è praticamente autistico, mentre il maschio alfa Tyler sa usare un fucile da guerra praticamente perché è un gamer, probabilmente anche incel, roba di cui andare davvero fieri...
Proprio i personaggi rappresentano un altro punto dolente, essendo semplicemente blandi, tanto che neanche l'impegno degli attori riesce a farli brillare in alcun modo. La povera Cailee Spaeny vive di sole reaction shot e, per quanto riesca a tenere la scena, lo script le offre davvero troppo poco; David Jonsson dimostra un'ottima versatilità in quello che è praticamente un doppio ruolo, ma il suo personaggio è davvero troppo squallido per essere preso sul serio; Isabela Merced ci prova anche, ma sfortunatamente anche lei non ha abbastanza materiale. Gli altri tre personaggi sembrano poi dei riempitivi messi lì giusto per aumentare il body-count e, nel caso del teenager arrabbiato Bjorn, solo per darci qualcosa da detestare.
Quando poi si tratta di inserire la metafora piscoanalitica, Alverez riesce a fare persino di peggio. Laddove nella serie le metafore erano sottili e per questo riuscite, qui si decide di urlare letteralmente in faccia l'orrore della mutazione corporale data dal parto inserendo il personaggio di una ragazza rimasta incinta che serve solo a creare la scena finale e con tanto di dettaglio sul dipinto di un bambino che si allatta al cadavere della madre; dopotutto, stiamo parlando del regista che ha deciso di trasformare i deadite di Evil Dead in una metafora sulla tossicodipendenza creando un film dove la final girl urlava "ho chiuso con quella merda!" mentre uccideva il mostro finale, era da stupidi aspettarsi sottigliezze.
Mentre quando deve fare davvero il suo dovere e costruire sequenze ricche di suspense, Alvarez si dimostra persino meno volenteroso che in sede di scrittura, incredibile ma vero. Ogni singola scena deve avere un jump-scare e ogni singolo jump-scare deve essere accompagnato da una sviolinata per far saltare lo spettatore dalla sedia; sono lontani i tempi dei silenzi assordanti di Scott, dell'azione furiosa e disperata di Cameron, dell'atmosfera opprimente di Fincher e persino di quel sinistro senso di grottesco di Jeunet, qui è la pura convenzionalità a regnare sovrana.


















Come porsi di fronte ad Alien: Romulus?
Se non si hanno pretese e soprattutto se non si conosce la serie, lo si può anche apprezzare; certo è che quando ci si dovesse accorgere che tutto quello che mostra è stato fatto decenni prima e anche molto meglio, perderebbe automaticamente ogni valore relativo che così potrebbe assumere.
Se si conosce la serie, invece, ci si rende conto immediatamente di come questo non sia un vero film, quanto una sorta di fan-film con un budget multimilionario, una sorta di antologia dei momenti migliori del passato privo di una sua identità. O, in poche parole, il perfetto esempio di blockbuster per franchise degli ultimi dieci anni, l'ennesimo exploit di un'industria cinematografica dove mancano coraggio e forse anche vero talento per chi sta dietro la macchina da presa. Tanto che verrebbe quasi da rivalutare Prometheus e Alien: Covenant, i quali almeno cercavano di avere una propria identità.

domenica 18 agosto 2024

R.I.P. Alain Delon

 

1935 - 2024

Volto magnetico tra i simboli del cinema francese, icona di stile e sensualità, vero e proprio decano dei divi europei, Alain Delon ha segnato l'epoca d'oro del cinema d'autore collaborando con alcuni dei più grandi artisti degli anni '60 e '70.
Lanciato da Visconti con Rocco e i suoi fratelli, con il quale poi collaborerà anche ne Il Gattopardo, diventa il simbolo di un'era grazie a Melville e il suo Frank Costello Faccia d'Angelo, oltre che con l'erotismo di La Piscina.
In grado di passare con disinvoltura da film impegnati a operette pop del tutto disimpegnate (celebri le sue partecipazioni a Zorro, Il Tulipano Nero e, più di recente, Asterix alle Olimpiadi), è stato un interprete eclettico, ma sempre in grado di far suo ogni ruolo al quale ha preso parte, divenendo irrimediabilmente uno dei volti cinematografici per antonomasia.

giovedì 15 agosto 2024

R.I.P. Gena Rowlands

 


1930 - 2024

Moglie e musa di John Cassavetes, Gena Rowlands ha attraversato settant'anni di carriera rifulgendo come un'attrice da talento immenso. Una donna dal fascino magnetico, spesso alle prese con ritratti femminili non facili, messi al servizio di un cinema talvolta sperimentale, sempre intimista e ancora oggi in grado di colpire.

mercoledì 7 agosto 2024

Natural Born Killers- Assassini Nati

Natural Born Killers

di Oliver Stone.

con: Woody Harrelson, Juliette Lewis, Robert Downey Jr., Tommy Lee Jones, Tom Sizemore, Arliss Howard, Rodney Dangerfield, Russell Means, Pruitt Taylor Vince, Everett Quinton, Edie Mcclurg, Steven Wright, Sean Stone, Balthazar Getty.

Satirico

Usa 1994












E' il 1994. Il cinema americano ha trovato una nuova spinta creativa grazie all'avvento delle produzioni indie nelle sale dei grossi circuiti e il relativo successo di cassa. La società civile, al contrario, vive un periodo di forte incertezza: le paure sociali più basilari, precedentemente tenute a bada in parte a causa della Guerra Fredda, ora che questa non c'è più riprendono piede più forti che mai. 
In particolare, è la paura della violenza a trovare fin troppo spazio nella vita dell'americano medio, consumandone la psiche fino a fargli di credere che il definitivo collasso sociale sia alle porte; colpa anche della copertura che i mass media danno dei casi di omicidio e del modo in cui tratteggiano le figure dei serial killer, divenute delle celebrità vere e proprie, oltre che delle icone pop come nei casi di Charles Manson e Richard Ramirez e, in generale, del forte rilievo che assumono a livello mediatico i casi di cronaca nera, come quello di Amy Fisher, Tonya Harding e O.J. Simpson.
Se già negli anni precedenti il caso del "panico satanista" aveva portato a forme di paranoia che sarebbero state risibili nella loro assurdità se non avessero causato una vera e propria persecuzione di fenomeni popolari del tutto innocui (come Dungeons and Dragons) ora la situazione è ancora più sanguigna proprio poiché acuita dal sensazionalismo televisivo, con fior fiori di programmi spazzatura che ritraggono senza filtri e senza tatto alcuno casi di violenza spicciola trasformandoli in spettacolo e puntando il dito verso la violenza fasulla di film e videogiochi, spacciandola come propedeutica a forme di vera violenza.
Poi arriva Natural Born Killers e la situazione esplode.
Il "caso" è da manuale: il film viene accusato di incensare l'umana brutalità e di fare dei due protagonisti serial killer degli eroi, incitando i giovani spettatori a imitarli. Il messaggio satirico e la feroce critica verso i media e il loro rapporto ossessivo verso gli assassini seriali vengono ignorati e si arriva persino a caldeggiare l'idea di una vera e propria crociata contro la violenza al cinema, responsabile della vera violenza, tanto che persino film come Pulp Fiction e Strange Days vengono accusati di "traviare gli spettatori verso il male".
Il paradosso del caso è palese, ossia una pellicola che nasce per creare una catarsi verso la spettacolarizzazione della violenza, ma che viene accusata di spettacolarizzare la violenza e santificare gli assassini. Poco male, perché a trent'anni di distanza il j'accuse di Oliver Stone è ancora forte e fresco.


















Tutto nasce da uno script di Quentin Tarantino, venduto per qualche decina di migliaia dollari alla Warner poco prima del suo esordio con Le Iene nel 1991. La storia pare fosse nata da una sottotrama di quello di Una Vita al Massimo, nel frattempo divenuto un bel film per mano di Tony Scott: i due protagonisti iniziavano a lasciare una scia di sangue dietro la loro fuga romantica e un giornalista si interessava al caso, trasformandoli in superstar.
Caso vuole che nel 1993 esca Kalifornia, esordio alla regia di Dominic Sena, il quale presenta una trama del tutto simile: un giornalista alle prese con un saggio sui serial killer in America inizia a viaggiare per il Paese insieme ad uno sconosciuto e alla sua ragazza; questi altri non è che un feroce assassino seriale, il quale lo coinvolge in una spirale di violenza. Pellicola che all'epoca riscosse qualche consenso e che oggi merita di essere rivista più che altro per la performance di un giovane Brad Pitt, il quale si perde con metodo da Actor's Studio nei panni del suo lercio personaggio, per il fatto che nel ruolo della sua ragazza troviamo Juliette Lewis, che poi sarà la coprotagonista del film di Stone ma che qui ricopre praticamente la parte della vittima, oltre che per la bella fotografia di Bojan Bazelli.
Ma la sceneggiatura di Tarantino aveva in origine un approccio diverso: tutta la storia era ambientata in carcere, dove i due protagonisti Mickey e Mallory Knox (il fato ha voluto che in futuro avrebbero condiviso il cognome con quella ragazza che poi sarebbe salita agli onori della cronaca per un vero caso di assassinio qui in Italia) sono nel braccio della morte da diverso tempo e non si vedono da anni. La loro storia viene ricostruita dal vorace giornalista Wayne Gale, che già ne aveva fatto uno special nel suo programma, per lungo tempo l'episodio più visto. La loro biografia viene così ricostruita con una serie di flashback, all'epoca strumento narrativo cardine nel cinema tarantiniano.




















Salito a bordo del progetto, Stone decide di modificarlo a suo piacimento, facendo sua la storia e i personaggi. Eliminata la cornice del carcere, che torna come ambientazione solo nella seconda parte, ricostruisce la storia in modo più lineare, ma usando lo stesso lo stratagemma dei salti temporali e dei cambi di punti di vista. Tutta la sceneggiatura assume quindi anche un nuovo significato, tanto che Tarantino finirà per odiare a morte il film finito (pur ammettendo di averne visto si e no la prima scena), cercando persino (e invano) di far rimuovere il suo nome dai titoli.
Tale stravolgimento è stato però quello che ha permesso al film di divenire il piccolo capolavoro che ancora oggi è. Con la sensibilità più matura di Stone, una inedita verve anti-sistema e uno stile visivo e narrativo a dir poco anarchico, Natural Born Killers è divenuta una delle più grandi provocazioni contro la società americana che si siano mai viste, resa ancora più di valore dal fatto che sia stata creata da un regista premio Oscar e perorata da una major.



















Con esso, Stone in buona sostanza rivolge il dito medio a tutto e a tutti e lo fa nel modo più indisponente e cattivo immaginabile, ossia rendendo i due serial killer psicopatici i personaggi moralmente migliori della storia.
Mickey e Mallory sono malvagi, si divertono ad uccidere chiunque capiti loro a tiro, il loro modus operandi è al limite dell'inesistenza, abbandonandosi a scatti di violenza pura e immotivata e usando come firma unicamente il fatto di lasciare in vita un testimone che ne racconti le gesta. La loro violenza è spicciola e fine a sé stessa, non ha nemmeno la connotazione sessuale comune a molti serial killer, anzi la loro sessualità e il loro amore sono tratti caratteristici della loro personalità che non vengono sostituiti dalla sete di sangue.
Contraddicendo il titolo del film e persino il celebre discorso che Mickey fa in diretta tv, Stone non li caratterizza come veri assassini nati, non afferma che il male è del tutto connaturato al loro DNA. Esso è infatti figlio della violenza che hanno subito sin dalla tenera età: Mallory vive in una famiglia a dir poco disfunzionale, con un padre che la abusa sessualmente e psicologicamente che ha il volto da perfetto pervertito di quel Rodney Dangerfield nella realtà praticamente timorato di Dio; mentre Mickey ha un passato più nebuloso, ma anch'esso caratterizzato dalla violenza in famiglia.
Una violenza che i due assorbono e che diventa il loro demone interiore, il quale si libera in primis proprio per castigare i perpetratori originari della stessa. La provocazione è presto servita: alla fine restano praticamente irredenti oltre che impuniti, persino felicemente alla guida di una nuova famiglia nella quale non c'è traccia di dramma (in un finale alternativo, però, Owen, il personaggio più enigmatico del film, forse angelo custode, forse angelo della morte, forse il diavolo in persona, li ammazza a sangue freddo nelle ore immediatamente successive la fuga dal carcere).
Perché dare loro un lieto fine? Perché per Stone questi due degenerati almeno hanno piena coscienza del loro male e cercano persino di arginarlo con l'amore reciproco. Cosa che li rende migliori della degenerata società che li ha formati.




Tutti i rappresentati delle istituzioni sono invece personaggi grotteschi, mostruosi e talvolta persino violenti quanto i Knox, con la conseguenza che tutte le istituzioni risultano corrotte oltre il limite del marcio.
Al di là della famiglia, la polizia è la prima a trovare una forma di ritratto grottesco nel personaggio di Jack Scagnetti (interpretato con piglio naturalista dal compianto Tom Sizemore), un agente del FBI ossessionato dai Knox, che prova persino attrazione sessuale per Mallory, che fa della loro cattura la sua crociata, ma che si dimostra anch'egli un depravato quando sublima il sesso con la morte; ed è anch'egli figlio della violenza, essendo sopravvissuto al massacro di Charles Whitman.
L'altro rappresentante del potere costituito è il direttore del carcere McClusky, che Tommy Lee Jones interpreta andando per una volta totalmente sopra le righe per dare vita a quello che è un vero e proprio personaggio da cartone animato demenziale; sboccato e perennemente ai limiti dell'esaurimento nervoso, è la rappresentazione di un sistema civile, giudiziario e carcerario privo di senno, che si limita a reprimere con la forza il male senza cercare di capirlo, senza cercare di arginarlo davvero, dimostrandosi pazzo e malvagio quanto i veri assassini; fa un bel paio proprio con Scagnetti, il quale afferma di voler comprendere il male che affligge le persone per poterlo curare, ma in realtà è egli stesso da esso corroso.
Coppia di rappresentati delle istituzioni orrenda e inquietante, la quale risulta simpatica e persino nel giusto se confrontata a quello che è il vero mostro del film, ossia Wayne Gale.


















Wayne Gale è l'incarnazione dei media. Non solo della tv spazzatura, di quei programmi sensazionalistici che adoperano le parti peggiori della realtà per far presa sui bassi istinti del pubblico, ma dei media in generale, di quel giornalismo che utilizza la violenza reale come se fosse quella di fiction come prodotto da vendere agli spettatori. Stone si dirà ispirato per il messaggio del film proprio dal cambio di registro che si è avuto nelle testate giornalistiche a partire dagli anni '80, quando le notizie venivano date al solo fine di creare audience e non in base all'effettiva rilevanza e importanza delle stesse. Il giornalismo diviene così spettacolo, la realtà un prodotto da vendere a prescindere dalla sua carica drammatica, anzi, proprio perché vero, il dramma riesce a suscitare emozioni più forti nello spettatore, il quale resterà così incollato allo schermo pronto a consumare il prodotto che gli viene servito. L'immoralità del procedimento è totale proprio perché trasforma la vera violenza, la vera morte, il vero dolore in uno show da usare per arricchirsi.
Wayne Gale, di conseguenza, è il vero "cattivo" del film, sovente ritratto come un diavolo con tanto di corna rosse e ricoperto di sangue tanto quanto Mickey. Robert Downey Jr., qui alle soglie dal ritiro dalle scene per i grossi problemi personali, lo caratterizza anch'egli come un personaggio da cartone animato, dandogli anche un improbabile accento australiano perché ispirato a Steve Dunleavy, celebre giornalista aussie dell'epoca responsabile di un noto programma spazzatura che trattava veri casi di omicidio.
Essenziale è il fatto che nel confronto con Mickey, Wayne afferma di essere innocente, almeno per quel che riguarda l'omicidio, ma poi "sbarella" durante l'esplosione di violenza finale, divenendo aggressivo quanto gli assassini che ritrae. Il suo demone, perorato dalla voracità propria dell'arrivismo individualista, è ben peggiore di quello di Mickey, Mallory e di Scagnetti, è un demone creato e perorato dall'ego. Forse alla fine, l'unico vero "assassino nato" è lui.






















La critica peggiore, forse, Stone la rivolge al pubblico, a quella Generazione X del tutto priva di valori. Nel circo della spettacolarizzazione della violenza, anche il pubblico ha la sua colpa, quella di guardare, quella di idealizzare gli assassini-superstar che i media gettano loro in pasto in modo cinico. La loro colpa è quella di essere spettatori passivi, di lasciarsi abbindolare dalla narrazione imbastita ad hoc per carpirne i bassi istinti senza mai questionare la moralità del tutto.
Il pubblico è complice del circolo vizioso della violenza: se lui non guardasse, forse i media non la mostrerebbero, per lo meno non come uno show. Non per nulla, l'unico personaggio davvero positivo del film è il vecchio sciamano, un uomo che vive letteralmente fuori dalla società, lontano dalle sue ipocrisie, in una capanna fuori dal tempo e priva di praticamente ogni forma di tecnologia, tanto che quanto incontra Mickey e Mallory li vede come due demoni plasmati dalla televisione. Lui non guarda la tv, non è intriso nel sangue e nelle immagini della violenza, non è perpetratore e neanche spettatore, dunque non ha colpa per il ripetersi del ciclo di violenza.
Ed è lo stesso Stone ad usare a sua volta un metodo ambiguo per mettere il proprio pubblico alle strette e farlo riflettere sulla sua intrinseca complicità con le immagini granguignolesche; lo fa in primis sfondando in almeno un paio di occasioni la quarta parete e lasciando che i personaggi si rivolgano direttamente allo spettatore, tradendo il fatto che quanto sta accadendo su schermo sia finzione, sia una storia narrata per il tramite della macchina da presa. Ma lo fa anche in modo, più sottile e decisamente più ambiguo e finanche ambivalente, quando ritrae la violenza dei propri personaggi.



Si potrebbe anche dire che la polemica sulla violenza del film in fin dei conti è anche fondata. La violenza in Natural Born Killers è eccessiva e urlata pur mostrando davvero poco in modo diretto (quantomeno nella theatrical cut, la director's cut è invece decisamente più esplicita sul fronte visivo); e a tratti è genuinamente spettacolare, stilizzata oltre i limiti del visionario, come nel massacro iniziale, dove spuntano le semi-soggettive del proiettile e del pugnale. Forse è quindi corretto accusare il film di averla resa "bella", ma non si può certo accusarlo di averla giustificata o incensata, visto che porta sempre alla morte, sempre alla dipartita, sempre al dolore.
La violenza di Stone è dolorosa, non davvero giocosa; le conseguenza della violenza (di qualsiasi natura essa sia) sono sempre palesi e parti integranti della storia; persino la scena iniziale, nella sua apparente gratuità, è utile a introdurre i personaggi e i loro eccessi. La violenza deve quindi essere eccessiva, folle, urlata per avere un racconto coerente, ma è normale, di conseguenza, trovarla fin troppo eccessiva, fin troppo marcata, fin troppo urlata. Nel vedere questi eccessi, noi spettatori siano così chiamati in prima persona a riflettere, a questionare il perché ci stiamo divertendo, perché ne siamo così attratti. La risposta più ovvia risiede nel fatto che si tratti di finzione, cosa anche vera e che in fin dei conti giustifica l'uso di uno stile iperrealista; ma ci si arriva a chiedere cosa la renda davvero così attraente, se sotto sotto anche noi non siamo poi così diversi dai personaggi del film.


















La giustificazione degli eccessi  visivi è poi insita ovviamente anche nel registro del film, apertamente satirico e grottesco; ma anche nel fatto che la sua messa in scena non è quella della semplice stilizzazione della realtà, quanto quella della creazione in scena di uno stato inconscio collettivo.
Natural Born Killers è, in senso lato, il subconscio dell'America degli anni '90 (e non solo), un ritratto espressionista di quanto si nuove nelle viscere e nell'inconscio della società, per questo perfettamente inscrivibile in quella filmografia stoniana che fin dagli esordi ha parlato degli Usa e delle loro contraddizioni. E se già in JFK Stone aveva usato uno stile più sperimentale, caratterizzato da un montaggio veloce e nell'uso di differenti formati di immagine, qui decide di esagerare per creare un perfetto ritratto espressionista atto a dare corpo al punto di vista di un pugno di personaggi del tutto deviati: ben diciotto sono i tipi di immagine utilizzati, che spaziano dal classico 35mm in academy al video, passando per il super8, il 16mm e finanche degli inserti animati; i tagli di montaggio sono oltre tremila e l'uso della retroproiezione in camera dona un ulteriore tocco visionario ad una estetica che anche senza avrebbe avuto un'originalità infinita; semplicemente geniale è poi la trovata della costruzione del flashback sul primo incontro tra Mickey e Mallory come una sit-com, sorta di camuffamento folle dell'orrore quotidiano sotto la coltre del perbenismo catodico.
Essenziale è poi l'uso della colonna sonora, curata da Trent Reznor, qui alla sua prima esperienza in campo cinematografico. La tracklist è a dir poco amena, spaziando da Leonard Cohen ai Nine Inch Nails e da Patty Smith a Puccini in una sequenza priva di continuità, ma perfettamente alla pari con la follia della storia.
Il che fa il paio con l'uso del colore, il quale non ha davvero una valenza simbolica effettiva; Stone affermerà di aver usato il verde per simboleggiare l'avvelenamento e il rosso per la passione, ma tali accoppiate non sono consistenti per tutto il film.
Lo stile che ne risulta è puro caos, una tempesta di suoni e immagini che si susseguono ad un ritmo forsennato per quasi due ore, un perfetto corpus atto a esprimere il raptus omicida e selvaggio che attanaglia i protagonisti.




















Natural Born Killers esce nei cinema a partire dall'agosto 1994 e già alla sua coeva presentazione al Festival di Venezia suscita reazioni polarizzanti: c'è chi parla di parla di capolavoro, chi di un'opera sin troppo eccessiva e persino chi taccia Stone di essere ipocrita e a sua volta sensazionalista. Quasi tutti lo etichettano come "l'Arancia Meccanica degli anni '90", paragone più che calzante viste anche le citazioni esplicite al capolavoro di Kubrick.
Trent'anni dopo, il ritratto al vetriolo del film appare non solo come il perfetto zeitgeist di un'epoca, ma persino ancora attuale. I social network hanno trasformato la cultura dell'apparire come appannaggio di praticamente chiunque, distruggendo il limite tra creatore e spettatore, con influencer e semplici utenti che si cimentano nelle peggiori nefandezze pur di avere un quarto d'ora di notorietà, mentre spettatori sempre più desensibilizzati e distratti trasformano veri e propri idioti in celebrità milionarie.
La televisione è divenuta un medium anche peggiore grazie all'avvento dei reality show, che hanno spinto il voyeurismo dello spettatore medio oltre ogni limite immaginabile. I programmi di cronaca, d'altro canto, sono rimasti bene o male uguali nella loro incapacità di narrare in modo freddo e obiettivo fatti di sangue.
In Italia si punta sovente il dito contro trasmissioni come Chi l'ha Visto? che talvolta scadono nell'exploitation gratuita, ma i veri mostri sono ben altri, come gli special del Tg Mediaset sul massacro di turno, sovente costruiti come veri e propri mockumentari tanto sono esagerati, o, anche peggio, i programmi di "approfondimento" pomeridiani, che a cadenza quotidiana cercano di fare il punto sul caso di omicidio di turno con sedicenti esperti e inviati sul posto, trasformando fatti di sangue in vere e proprie soap opera per un pubblico che oramai vede gli omicidi come semplice avanspettacolo.
Nulla è cambiato, nulla è migliorato e il film di Stone risulta ancora drammaticamente moderno. Non per nulla, esso si chiude sulle note di The Future di Leonard Cohen, la quale recita testualmente: "I've seen the future, baby- It is murder".

lunedì 5 agosto 2024

The Well

di Federico Zampaglione.

con: Lauren LaVera, Claudia Gerini, Giovanni Lombardo Radice, Linda Zampaglione, Jonathan Dylan King, Denise McNee, Lorenzo Renzi.

Horror/Gore

Italia 2023

















Zampaglione è uno di quelli che ci crede davvero. Come Alex Infascelli prima di lui, è convinto che sia possibile fare cinema horror low budget in Italia, che sia ancora possibile creare film il cui appeal sia tutto nella violenza eclatante e nulla più. Un cinema che vive di spavento e disgusto, ancorato alla tradizione nostrana, ma che per forza di cose al giorno d'oggi difficilmente può avere la forza che aveva quasi mezzo secolo fa.
The Well è in senso lato un'opera dovuta, visto che si configura come un omaggio diretto al gore italiano degli anni '70 e '80; e da questo punto di vista, la passione dell'autore risulta davvero apprezzabile.




















1993. La giovane restauratrice americana Lisa (Lauren LaVera) si reca in un paesino della provincia italiana per riportare alla luce un quadro appartenente alla nobildonna del luogo, la bella Emma (Claudia Gerini). Nella villa della donna, è preda di strane visioni, mentre un gruppo di suoi conoscenti viene rapito e si risveglia in una prigione con uno strano pozzo al centro...




















Zampaglione pesca a piene mani dalla tradizione, riportando in primo piano alcuni dei topoi, in particolare, del cinema del mai dimenticato Lucio Fulci. Da L'Aldilà arriva il flashback color seppia, così come l'atmosfera sottilmente malata; il gore, altissimo e di ottima fattura, sfoggia un'asportazione oculare, vero e proprio marchio di fabbrica del padrino del filone. E sempre in suo omaggio, c'è un bel cameo "splatter" del compianto Giovanni Lombardo Radice, qui in una delle sue ultime apparizioni. Da Argento arrivano poi i virtuosismi hitchcockiani, come la 360 shot e la celebre inquadratura con la protagonista che si abbassa per disvelare qualcuno alle sue spalle, così come l'idea di una ragazza americana che si reca in Europa per poi essere risucchiata in un vortice d'orrore. Da La Casa delle Finestre che Ridono di Avati arriva ovviamente l'incipit di un'estraneo chiamato a restaurare un dipinto sito in un paesino di provincia che nasconde orribili segreti. 






















Questi sono solo i rimandi più espliciti. Il lavoro di Zampaglione non si limita, tuttavia, alla semplice compilazione di una serie di citazioni, ma si esplicita nella volontà di ricreare quel tipo di cinema, solo con il digitale al posto della pellicola e poche altre differenze.
La trama è inesistente, un puro pretesto per imbastire sequenze di tensione che culminano nello splatter, i personaggi sono solo abbozzati, hanno il minimo di caratterizzazione richiesta per far procedere gli eventi. Nulla che possa davvero compromettere la visione di un film che vuole omaggiare la tradizione, ma sarebbe stato bello avere qualcosa in più di una semplice rievocazione del passato. Persino il cast presenta una serie di comprimari dalla recitazione acerba, sempre in omaggio alla tradizione. In compenso, le protagoniste se la cavano bene, con Lauren LaVera che continua la sua carriera da scream queen dopo il cult Terrifier 2 e la piccola Lidia Zampagliane che riesce ad essere tutto sommato credibile.
Tutto il film è basato sulla suspense, tutto sommato ben eseguita, e sugli effetti granguiognoleschi, davvero di ottima fattura. Il limite è così intrinseco alle intenzioni, ossia quello di creare un prodotto di genere che sia tale e nulla più. Un'onestà di fondo apprezzabile, ma che finisce per compromettere tutta l'opera.



Zampaglione, inoltre, non ha certo l'occhio per la messa in scena e la raffinatezza di un De Feo, né riesce ad imbastire una regia degna dei numi di riferimento. Anzi, la costruzione delle singole scene è talvolta dozzinale, basata sulla più semplice alternanza tra master e singole inquadrature più strette, vanificando anche parte della tensione, che a tratti avrebbe richiesto una maggiore inventiva; senza contare come l'ombra del ridicolo involontario si affaccia sovente, fortunatamente senza mai palesarsi del tutto.
Rozzo quanto si vuole, The Well è tutto sommato un'opera apprezzabile nella sua natura di pura rievocazione e omaggio; un film fatto da un appassionato per un pubblico di appassionati, che farà certamente storcere il naso anche ai patiti del cinema horror un filo più esigenti, ma che non si può e non si deve disprezzare più di tanto.