lunedì 16 settembre 2024

Love Lies Bleeding

di Rose Glass.

con: Kristen Stewart, Katy O'Brian, Ed Harris,  Dave Franco, Jena Malone, Anna Baryshnikov, Eldon Jones, Orion Carrington, Matthew Blood-Smyth, Keith Jardine.

Thriller/Noir

Usa, Regno Unito 2024

















Amore e morte nel profondo degli Usa. Un amore passionale, puro, incondizionato, eppure immerso in un mondo sporco e lordo di sangue. Love Lies Bleeding è essenzialmente questo, il che è paradossale se si pensa che si è cercato di venderlo come il classico film sulle problematiche della comunità LGBTQ+ quando l'omosessualità delle protagoniste resta praticamente sempre in secondo piano (se non in terzo) e non viene neanche descritta come problematica per chi sta loro intorno. Dopotutto, Rose Glass aveva già fatto intendere con il suo esordio Saint Maud di non essere una cineasta più di tanto interessata alle mode, quanto di essere un'autrice dotata di un proprio stile e di una propria poetica, le quali, pur avendo dei numi tutelari riconoscibili, concedono alle sue opere una forma di identità.



















Sud degli Stati Uniti, 1989. Lou (Kristen Stewart) lavora nella palestra locale, ma è figlia di Lou Sr. (Ed Harris), gangster coinvolto nel contrabbando di armi con il Messico. Sua sorella Beth (Jena Malone) è poi sposata con il viscido JJ (Dave Franco), che la abusa quotidianamente. Gli equilibri di questa comunità sbandata vengono ulteriormente scossi dall'arrivo di Jackie (Katy O'Brian), bellissima body-builder che cerca di sbarcare il lunario.



Due donne forti coinvolte in una incandescente passione, Lou e Jackie sono un mix tra Thelma & Louise e Sailor e Lula, due anime gemelle il cui idillio è compromesso dal ciclo della violenza; una violenza endemica, che affligge un'intera comunità e che ha diverse forme.
La prima, più disturbante, è quella coniugale, la violenza immotivata di un marito che gratuitamente riduce una moglie in fin di vita. La seconda, meno esplicita, è quella di un patriarca mafioso che tiene in pugno una comunità sottomettendo persino l'amata figlia e eliminando chiunque vi si opponga.
Una violenza che cinge ineluttabile tutti i personaggi, siano essi vittime o carnefici: le due amanti non riusciranno mai davvero a sfuggirne, ma anche la vittima per eccellenza Beth alla fine compatirà quella figura mostruosa che per anni ne ha reso l'esistenza miserevole.
La passione prende le forme non solo delle incandescenti scene di sesso, ma anche della fisicità scultorea di Katy O'Brian, dei suoi muscoli sudati che si flettono nello sforzo ginnico. Uno sforzo rivolto alla salvezza, alla fuga da un destino di sangue che sembra segnato e inevitabile, che viene sostituito con un sogno verso la California, come da tradizione terra dei sogni.














La Glass guarda a questo pugno di personaggi con distacco, ne dipinge il cammino in modo visionario e volutamente freddo; il colore rosso non sottolinea la passione ma il pericolo e il cielo stellato che letteralmente li opprime non offre salvezza se non nelle fantasie deliranti. Con la conseguenza che tutti i personaggi hanno una loro tridimensionalità non restando ancorati agli stereotipi di ruolo, partendo dalle due protagoniste: Lou ha il sangue freddo che solo un passato di violenza può dare, mentre Jackie alterne una furia omicida incontenibile ad una fragilità insostenibile. Persino il maschio alfa, che Ed Harris si diverte a dipingere come una sorta di hippie sanguinario, ha un'indole morale più forte di quanto si possa credere in storie simili. Il risultato è un racconto tanto visionario quanto sfaccettato dove nessuno è quello che sembra, dove nessuno è davvero innocente e chi è davvero finisce inevitabilmente con il diventare vittima della loro furia, spesso per caso o convenienza, come solo la migliore tradizione del noi americano sa raccontare.



















Love Lies Bleeding riesce così nell'intento di dipingere in modo forte e credibile un gruppo di personaggi maledetti in una storia fosca e infuocata. Un thriller che potrebbe essere definito "vecchia scuola" per come non si fa scrupoli ad usare un registro cinico, ma al contempo visionario e cattivo.

venerdì 13 settembre 2024

Beetlejuice Beetlejuice

di Tim Burton.

con: Michael Keaton, Winona Ryder, Jenna Ortega, Catherine O'Hara, Monica Bellucci, Justin Theroux, Willem Dafoe, Arthur Conti, Burn Gorman.

Commedia/Fantastico

Usa 2024













Tim Burton oramai è ufficialmente alla ricerca di una rinascita artistica. Complice anche la pessima esperienza avuta con Dumbo, ha realizzato di aver perso quel qualcosa che lo rendeva speciale, che gli permetteva di creare pellicole davvero memorabili non solo per i nomi degli attori che vi prendevano parte, veri e proprio pezzi di pop-art apprezzati da tutti, un passato che ben pochi cineasti possono vantare.
Beetlejuice Beetlejuice è quindi il film del "ritorno alle origini" con il quale Burton porta a compimento un progetto iniziato oltre trent'anni fa. A fronte del successo dell'originale Spiritello Porcello, un sequel pare fosse entrato in cantiere già nei primi anni '90; un primo script fu redatto dal compianto Warren Skaaren, che già aveva revisionato quello dell'originale, e vedeva Betelgeuse fuggire dal mondo dei morti per concupire una giovane parigina; ma la morte dell'autore, di concerto con gli impegni presi da Burton per Batman il Ritorno e Nightmare Before Christmas hanno portato a cassare questa prima incarnazione di Beetlejuice 2; il quale ritorna giusto qualche anno dopo come Beetlejuice goes hawaian, con una sceneggiatura talmente delirante che praticamente nessuno ha voluto toccarla.
Trentasei anni dopo il primo exploit, Michael Keaton torna così a vestire i panni del bio-esorcista e Burton torna a dare fondo alla sua creatività per dar vita alle sue peripezie. E va detto: Beetlejuice Beetlejuice sfoggia una forma decisamente più interessante rispetto agli exploit burtoniani degli ultimi quindici anni (Frankenweenie a parte, si intende); peccato però che resti il più classico dei legacy sequel che si possa immaginare.


















Trentasei anni sono passati anche per i Deetz. I Maitland? Liquidati fuori scena con una lacuna nel regolamento che li ha permesso di "trapassare" definitivamente (e di non spendere soldi per il de-aging software). Nel frattempo Lydia è divenuta una sensitiva televisiva e ha avuto una figlia, Astrid (Jenna Ortega) con un primo marito deceduto male, mentre ora frequenta l'arrivista Rory (Justin Theroux). Tutto va bene? Non proprio: papà Deetz muore male anche lui e per tutto il film non è interpretato da Jeffrey Jones, viste le sue condanne per detenzione di materiale pedopornografico. Il lutto è l'occasione per Lydia, Astrid e la matrigna Delia (Catherine O'Hara) per ricucire i rapporti. Ricucitura che interessa anche la misteriosa Delores (Monica Bellucci), defunta succhia-anime che viene risvegliata da un inserviente maldestro (Danny DeVito) e che ora è in cerca di Betelgeuse (Keaton); il quale, a sua volta, se la spassa ancora come bio-esorcista ciarlatano.



















Un legacy sequel che ha il difetto mortale di tutti i legacy sequel, ossia la venerazione per l'originale, aprendosi con un volo sulla cittadina di provincia che diventa di punto in bianco un diorama e chiudendosi con le folli nozze del mostro, proprio come nel 1988. E' stato facile per tanta critica incensarlo per lo stile visionario e le trovate slapstick, ma BeetleJuice Beetlejuice, come da copione, non fa altro che riprendere e riproporre il passato; le differenze sono pochissime, come la mancanza della palette cromatica a là Mario Bava per le sequenze ambientate nell'aldilà, sostituite da colori decisamente più convenzionali; l'omaggio a Bava ora si sostanzia essenzialmente nel flashback dove si spiegano le origini di Betelgeuse e Delores, tra l'altro narrate in italiano anche nella versione originale; altro? L'omaggio al mondo della disco music, che da qualche anno Burton sembra apprezzare e l'uso di una scena animata totalmente in claymotion, stranamente blanda, tanto che più che a Burton e alle sue fantasmagorie la mente corre al pur simpatico Happiness of the Katakuris di Takashi Miike, dove l'animazione era però volutamente scialba.
Per il resto nulla di quanto appare su schermo è nuovo; anzi, Betelgeuse si limita a sfoggiare i suoi look più celebri (il completo a strisce con gli anfibi e lo smoking bordeaux) ma non il suo primo look con lo spolverino, il design di Delores è una fusione tra la Sally di Nightmare Before Christmas e La Sposa Cadavere, mentre il Betelgeuse Bebè sembra più che altro un omaggio alla scena più divertente del mitico Splatters- Gli Schizzacervelli di Peter Jackson.



















Da un punto di vista strettamente narrativo, le cose vanno invece un pelino meglio: lo script almeno non è una fotocopia sbiadita del primo e, anzi, cerca di dire qualcosa di nuovo; perché poi questo qualcosa debba essere una storia pseudo-femminista su quattro donne e il loro rapporto con i compagni tossici non è chiaro, ma evidentemente agli sceneggiatori di Mercoledì non è venuto niente di meglio in mente.
Troviamo così Lydia alle prese con uno spasimante falso e arraffone non poi tanto diverso dallo Spiritello Porcello che cerca ancora di concupirla, Astrid alle prese con una cotta che si rivelerà a dir poco pericolosa e Delia a piangere un marito che invece era davvero un'anima gemella, fatto veramente strano soprattutto se si pensa ai trascorsi di Jeffrey Jones. Delores, d'altro canto, è una semplice villain, ma almeno funziona come perfetto controaltare al bio-esocrista ciarlatano più simpatico del cinema; e Burton ha la decenza di limitare al minimo sindacale i dialoghi della Bellucci, che come sempre quando si tratta di sfoggiare la sua inesauribile bellezza funziona a dovere.

















Si hanno così tre tracce narrative che si intersecano tra di loro; al bando la satira di costume, Beetlejuice Beetlejuice alla fin fine è una semplice commedia sulla guerra dei sessi e sull'accettazione di sé stessi, nulla più e nulla meno; la sceneggiatura non sempre riesce a tenere insieme le sequenze necessarie, che talvolta sembrano un po' forzate, come il flashback baviano, ma per la maggior parte il tutto scorre bene. Questo nonostante Burton a tratti non riesca a imporre il giusto ritmo, forse anche a causa del cast: Jenna Ortega fa sostanzialmente il suo classico personaggio da adolescente problematica senza impegnarsi più di tanto, Winona Ryder neanche cinquant'anni riesce a tenere la scena, Willem Dafoe è tutto sommato sprecato, l'unica che davvero dimostra grinta è Catherine O'Hara, davvero scatenata; quanto a Michael Keaton... il suo carisma è sempre lì e fa sua ogni scena, ma quella genuina pazzia e quell'entusiasmo strabordante del passato si percepiscono solo a tratti.

















Si potrebbe quindi etichettare Beetlejuice Beetlejuice come un sequel dignitoso ma modesto e lo si potrebbe anche tranquillamente detestare. Eppure, ha qualcosa che lo rende lo stesso divertente, che permetterebbe anche allo spettatore più cinico di divertirsi; c'è qualcosa in quest'alchimia ottenuta riciclando il passato che per una volta non urtica, né annoia; per una volta e da davvero molti anni a questa parte, l'entusiasmo di Burton si avverte davvero, pur al netto dei difetti di direzione; sarà perché gli ultimi exploit dell'ex enfant prodige di Burbank sono stati al meglio mediocri, sarà perché in generale quella del legacy sequel è una moda che ha generato davvero pochissimi esiti degni di nota, questa volta ci si riesce almeno a divertire.

martedì 10 settembre 2024

R.I.P. James Earl Jones

 

1931 - 2024

Resterà per sempre celebre come la voce storica di Darth Vader e di Mufasa de Il Re Leone, ma James Earl Jones è stato anche un glorioso caratterista con circa 190 ruoli all'attivo. Collaborando con autori del calibro di Stanley Kubrick, John Boorman, Francis Ford Coppola e John Milius, Jones si è imposto come interprete eclettico e carismatico prima ancora che come vera e propria icona popolare.

The Crow- Il Corvo

The Crow

di Rupert Sanders.

con: Bill Skarsgaard, FKA twigs, , Danny Huston, Josette Simon, Laura Birn, Sami Boujila, Karel Dobry, Jordan Bolger.

Fantastico/Azione/Gore

Usa, Regno Unito, Francia 2024















Ed eccolo qui finalmente, il famigerato remake/reboot de Il Corvo- The Crow (in Italia approdato invertendo titolo e sottotitolo) rimasto per quasi vent'anni in development hell, con una decina tra registi e attori che vi si sono avvicinati senza che nulla si sia concretizzato; una re-immaginazione partita come adattamento più fedele del capolavoro di James O'Barr, che per questo aveva avuto inizialmente l'appoggio dell'autore, solo per poi divenire altro e che vede adesso la luce grazie alla caparbietà del produttore Ed Pressman e a quella di Rupert Sanders, autore del blandissimo ma non totalmente disprezzabile remake yankee di Ghost in the Shell; girato in fretta e furia e praticamente in segreto, odiato prima ancora che arrivasse in sala a causa del suo look e della sua estetica lontani anni luce non solo dal film originale, ma anche dal fumetto originale. E questo remake che remake davvero non è, reboot che reboot davvero non è altro non è se non un quinto film dove il collegamento con l'originale è dato solo dal nome del protagonista, saldamente ancorato ai luoghi comuni di una serie dove il personaggio del titolo sembra condannato perennemente a risorgere per ripetere costantemente le stesse azioni, solo in contesti diversi e in film sempre più stanchi, brutti e privi di personalità. Dei quali questo nuovo capitolo non fa eccezione, ma tra i quali ha anche un pro e un contro che gli altri non hanno: è sicuramente più dignitoso di tanta altra spazzatura che ha portato il titolo "Il Corvo", ma al contempo dimostra di non aver capito assolutamente nulla né dello spirito del personaggio, né dello spirito di quella serie di film che, per quanto malriuscita, invece continuava a coltivarlo.
Per comprendere appieno l'errore madornale alla base di The Crow bisogna quindi ricordare che cos'era il The Crow cartaceo che a partire dal 1988 ha stregato milioni di lettori, compreso il compianto Brandon Lee.

L'opera di O'Barr era essenzialmente uno stumento per elaborare il lutto che lo aveva colpito. La storia è in realtà nota a chiunque si sia appassionato anche solo al film del 1994: l'autore nasce figlio di una donna fortemente alcolizzata e viene letteralmente tratto in salvo a pochi giorni dalla nascita da una casa nella quale nessuno si era accorto del parto. Cresce in solitudine in orfanotrofio, passando i primi anni della sua vita a difendersi dalle angherie di altri piccoli disperati e quando viene adottato, a circa sei anni, si ritrova in una famiglia che, pur amorevole, è spesso assente. Il suo carattere diventa quindi ruvido e persino violento, con il cinema e la passione per i fumetti a rappresentare le uniche valvole di sfogo in una realtà a dir poco priva di luce.
Una luce che arriva inaspettatamente quando, adolescente, incontra Beverly, una compagna di classe che, nelle sue stesse parole, era il suo opposto, una persona gioviale e carica di vita; la storia tra i due è quella che oggi con cinismo potrebbe essere descritta come la tipica love-story adolescenziale, ma che nel contesto della turbolenta vita dell'artista risulta davvero come un raggio di speranza. La quale viene dissolta quando Beverly muore a soli 18 anni, nel 1978, a causa di un camionista ubriaco che la investe.
O'Barr, incolpandosi della sua morte, precipita così in una spirale autodistruttiva fatta di droga e violenza spicciola, per tenere a bada le quali decide di arruolarsi nell'esercito. Inviato a Berlino, inizia a lavorare come illustratore dei manuali di combattimento e sopravvivenza, affinando la sua tecnica, ma il suo demone interiore non trova pace: leggenda vuole che rientrato in patria abbia anche cercato di uccidere il responsabile della morte di Beverly, nel frattempo deceduto per altri motivi.
Il senso di frustrazione e di disperazione diventano così insostenibili e inizia a disegnare le prime strips de Il Corvo per cercare una catarsi almeno in un mondo di fantasia. Il resto è storia: a seguito di vari rigetti, riesce a far pubblicare la sua opera grazie ad un accordo con la Caliber Comics di Kevin "Turtles" Eastman, il successo è immediato e i diritti per un adattamento cinematografico vengono venduti già nel 1991. Quando la tragedia ha colpito il set del film, O'Barr si è ritrovato nuovamente in una situazione disperata: l'infrangersi dell'amicizia che aveva stretto con Brandon Lee lo ha portato nuovamente sull'orlo del baratro, dal quale è fortunatamente riuscito ad uscire grazie all'amore di una famiglia che nel frattempo si era costruito.


Il Corvo, quindi, è alla sua base un esercizio per l'elaborazione del lutto, una storia di disperazione resa ancora più nera grazie all'intuizione, geniale, di alternare le immagini più crude ad un romanticismo salvifico; così che quella che astrattamente è una semplice storia di vendetta violenta "vigilante style" come se ne sono viste a bizzeffe in tutti i media, diventa una perfetta rappresentazione dell'umano dolore, causato dalla perdita di una forza salvifica impossibile da elaborare davvero.
Facile è stato per i lettori più sensibili amare questa graphic novel adulta nel senso migliore del termine, anche grazie allo stile punk rock e alle citazioni musicali e letterarie che O'Barr vi ha immesso, con rimandi agli amati Joy Division e a Rimbaud. Ancora più facile è stato amare quel tragico film che, pur riarrangiando ampiamente storia e personaggi, ne sapeva cogliere alla perfezione sia lo spirito tragico, sia quello più solare, oltre che all'atmosfera cupa e violenta, infondendovi inoltre un tocco goth che ne aggiornava lo stile al nuovo decennio
Bisogna quindi partire da un duplice presupposto: Il Corvo di O'Barr non era una semplice storia di amore e vendetta e non portava in scena un supereroe/vigilante che faceva semplicemente giustizia verso le forze del male; il film del 1994 riprendeva pienamente tale aspetto e ha anche il grosso pregio di essere invecchiato molto meglio di quanto si possa immaginare.




La differenza più marcata di questo nuovo film rispetto a tutte le altre incarnazioni (meno che verso lo scalcinato Preghiera Maledetta) è il cambio di registro e di look: tolto qualche riferimento ai Joy Division nella colonna sonora, non c'è traccia del punk originario, nel del dark goth cinematografico. Rupert Sanders ha optato per un'estetica inedita nella serie e ciò gli ha sicuramente concesso una nota di originalità quantomeno nel look.
Un look totalmente moderno, con un Eric Draven che è un trapper mezzo nudo e agghindato con uno strambo spolverino ai limiti dello steampunk. Mossa azzardata? Non proprio: bisogna pur sempre tenere presente che sia il fumetto che il film sfoggiavano un'estetica perfettamente accordata alla moda del tempo; una moda underground e controculturale, ma pur sempre una moda, la quale oggi come oggi persiste solo negli aficianados, soprattutto di lunga data, nonostante abbia fatto scuola anche grazie al film.
Una nuova incarnazione che si accordi alla moda odierna ha perfettamente senso e se tutto il film risulta scialbo in termini strettamente estetici è solo perché (è il caso di dirlo) il look punk e quello dark goth sono decisamente più belli da vedere su schermo. Fatto resta che almeno questo finto remake ha una sua personalità, la quale risulta ancora più marcata perché prodotto in un periodo storico dove ogni sequel/remake deve necessariamente riprendere in modo feticistico stile e stilemi dei capostipiti senza mostrare nulla di nuovo, con esiti talvolta imbarazzanti.



Va poi sottolineato come Il Corvo- The Crow non creasse davvero nessuna forma estetica del tutto inedita, almeno dal punto di vista strettamente cinematografico. Il film di Proyas era figlio né più nè meno del Batman di Tim Burton, dal quale ha ripreso il gusto per una messa in scena stilizzata, per una fotografia reminiscente del cinema horror classico e di quello espressionista e in generale un gusto per il gotico moderno che, come detto, andava a sostituire quel punk fumettistico che in immagini avrebbe reso il film più simile ad una pellicola sleazesploitation che ad un horror.
Anche Rupert Sanders riprende a sua volta la lezione esteitca di un altro film sull'Uomo Pipistrello per creare il suo The Crow- Il Corvo, ossia il The Batman di Matt Reeves, dal quale ricava il gusto per una metropoli notturna verosimile e immersa nei colori ambra e magenta dei lampioni. Ed è qui che sta uno dei problemi cardine del film, perché se il goth dark di Proyas era perfetto per trasmettere una sensazione di disagio e per ammantare i personaggi in un'atmosfera cupa e opprimente, il realismo quasi nolaniano di Sanders finisce per appiattire tutto.
Regia e fotografia cercano costantemente di trovare un'atmosfera che si attagli alla storia, ma falliscono miseramente; a tratti il gusto moderno paga anche, con qualche scena dove l'atmosfera autunnale e sleazesploitation riescono finalmente a filtrare, ma il tutto viene poi ammazzato dagli esterni giorno nell'assolata campagna americana, dagli interni che risultano anonimi anche quando ritraggono il lusso decadente di alcuni personaggi o da quegli orrendi colori pastello del centro di recupero. The Crow finisce così per non avere atmosfera, con un personaggio che si muove in un mondo anonimo nel quale non risalta neanche come creatura fantastica in un contesto verosimile, anzi risultando talvolta persino fuori ruolo. Manca in generale il senso di meraviglia, di bellezza, di stile. E se già questo sarebbe abbastanza per decretare il fallimento di questo revival, il vero colpo mortale lo infligge una sceneggiatura a dir poco pessima.



Tutti i luoghi comuni del moderno cinema di genere americano confluiscono a forza in meno di due ore; si parte da due protagonisti blandi: Eric è un tossicodipendente bullizzato dai compagni del centro di recupero, Shelly una tossicodipendente inseguita dal cattivone di turno. Il fatto che i due amanti immortali siano due tossici non deve stupire vista la volontà di riprendere gli stilemi della trap, che da sempre incensa le gioie della tossicodipendenza, tanto che non manca persino una scena nella quale i due si drogano come se fosse qualcosa di cui essere fieri e felici; più singolare è il fatto che regalando più screentime a Shelly la si trasforma paradossalmente in un personaggio peggiore (cosa successa di recente anche con la Chani di Dune- Parte Due): nel film originale era una ragazza che veniva punita perché si opponeva alle angherie di Top Dollar e alla speculazione edilizia di cui era fautore, qui è semplicemente una tossica che ha commesso un omicidio, nulla più. Vien da ridere se si tiene conto che l'amore di Eric nei suoi confronti vacilla quando scopre dell'omicidio, pur avendo piena coscienza del fatto che fosse stata manipolata dai poteri magici del cattivo Roeg.
Il fatto che il cattivo non sia un semplice criminale ma sostanzialmente uno stregone immortale che ha stretto un patto con il diavolo era anche un aspetto interessante; peccato però che non trovi sviluppo effettivo. In generale, tutta la trama sembra un semplice abbozzo dove manca ogni forma di sviluppo, con la "discesa all'inferno" di Eric che vive solo grazie a qualche dialogo.
L'intera storia di amore e morte viene poi raccontata in modo lineare, stabilendo per l'ennesima volta l'incapacità degli sceneggiatori americani di saper usare una struttura non lineare o anche semplicemente di usare la sintesi nella narrazione per immagini; l'intero film, di conseguenza, è diviso in due parti, letteralmente eros e thanatos, delle quali la prima è a dir poco atroce: l'incontro e l'attrazione tra Eric e Shelly sono forzatissimi, la loro unione dura giusto qualche giorno eppure sono innamoratissimi, come due adolescenti persi nel corpo di due ultraventenni (immaturi perché tossicodipendenti?) e la loro separazione finisce con il risultare insipida proprio perché preceduta da metà film costruita su esagerazioni e forzature.



Nella seconda parte le cose vanno anche peggio. Proprio a causa dell'incapacità di empatizzare per i due ragazzi, le uccisioni divengono pura vendetta dove non c'è traccia di disperazione o dolore. Il Corvo, qui, altro non è se non un Charles Bronson della trap la cui rappresaglia è persino sottolineata da un tasso di gore che finisce per glorificare la violenza spicciola. Ed è qui che The Crow si dimostra come del tutto ignorante nei confronti della sua base fumettistica, finendo per togliere a storia e personaggi ciò che li rendeva davvero memorabili, originali e riusciti.
Piatto come storia d'amore, piatto come storia di vendetta, piatto nella messa in scena, piatto persino nelle performance, con un Bill Skarsgaard che, povero lui, ci prova pure a dare spessore ad un personaggio monocorde ma non ci riesce, The Crow è piatto persino come film di supereroi, con l'ennesimo eroe che impiega praticamente tutto il film per sfoggiare il proprio look.



Alla fine della visione ci si accorge però di come questa piatta riproposizione del personaggio di culto sia sbagliata per un motivo sin troppo semplice: è il classico film hollywoodiano degli ultimi anni. E' l'adattamento di qualcos'altro, quindi non ha originalità; ha una sceneggiatura lineare, basilare, abbozzata priva di inventiva e di mordente; ha una messa in scena priva di stile, ispirazione e ambizione; si rifà a mode e modi squallidi risultando imbarazzante e urticante. In questo, Sanders ha davvero dato un'ottima lezione di moderno filmmaking.

venerdì 6 settembre 2024

Gott mit Uns (Dio è con noi)

di Giuliano Montaldo.

con: Franco Nero, Richard Johnson, Larry Aubrey, Helmuth Schneider, Bud Spencer, Michael Goodliffe, Relja Basic, Emilio Delle Piane, Enrico Osterman, Osvaldo Ruggieri, Renato Romano, T.P. McKenna, Rade Serbedzija.

Storico/Drammatico

Italia, Jugoslavia 1970













La prima parte della filmografia di Giuliano Montaldo è caratterizzata da opere eterogenee, con le quali ha toccato tematiche e persino generi disparati. Se con Tiro al Piccione portava alla ribalta la storia recente d'Italia, con Una Bella Grinta creava uno spaccato del presente che fondeva ritratto e melò; la partecipazione al documentario Nudi per Vivere (al quale prese parte anche Elio Petri) gli permise di muoversi direttamente nella realtà notturna dell'Italia degli anni '60, mentre i successivi Ad Ogni Costo e Gli Intoccabili lo portavano a misurarsi direttamente con il cinema di genere.
E' nel 1970, con il celebre Gott mit Uns, che Montaldo sembra trovare una quadra per il suo cinema, che ora torna a trattare della Storia (allora) recente, come agli esordi, in una pellicola che gli permette di far salire il suo nome nuovamente agli onori della critica e che segnerà parte della sua produzione successiva.



Maggio 1945, Olanda. Mentre la Seconda Guerra Mondiale volge al termine, i soldati della wehrmacht Bruno Grauber (Franco Nero) e Reiner Schultz (Larry Aubrey) disertano per salvarsi la vita e trovano rifugio presso un distaccamento canadese degli Alleati, dove fanno amicizia con il caporale Jelinek (Bud Spencer). Tale distaccamento ha occupato un ex campo di concentramento, convertito a campo di prigionia per gli sconfitti. Qui la tensione tra l'ufficiale alleato Miller (Richard Johnson) e il colonello tedesco Von Bleicher (Helmuth Schneider) è alle stelle e scoppia definitivamente quando quest'ultimo chiede di poter processare i disertori.




Un vergognoso e misconosciuto episodio di guerra, quello alla base di Gott mit Uns: due soldati disertori vengono processati da una corte marziale fuori tempo massimo e persino giustiziati pur se da un esercito sconfitto e finanche dopo che la guerra è ufficialmente finita. Un episodio che Montaldo traduce in un pamphlet sull'assurdità della guerra e sui disumani meccanismi dell'esercito, qui inteso come pura istituzione. La Storia che si fa ritratto, quindi, con i protagonisti che divengono a loro modo degli archetipi, a cominciare dai due disertori.
Grauber e Schultz, al pari dei più celebri Sacco e Vanzetti che Montaldo porterà sul grande schermo giusto un paio di anni dopo, sono due innocenti che vengono schiacciati da un sistema che non può tollerale gli afflati di dissenso, nemmeno quando questi sono resi necessari per la sopravvivenza. Grauber è il più insofferente, il quale arriva a ridere in faccia e persino minacciare il suo ex superiore; Schultz, giovane e inesperto, è un innocente che si ritrova suo malgrado coinvolto in una situazione mortale, non un ribelle, quanto un semplice "uomo comune" che ha provato a sopravvivere invano alle avversità.
Corrispettivamente, Miller e Von Bleicher sono i due volti dell'autorità. Il primo, canadese, è un ufficiale dai modi gentili e quasi naif nel suo rapportarsi con dei prigionieri superbi e volitivi; il secondo, suo opposto, è un perdente solo esteriormente, continuando a ritenere modi prevaricatori pur ritrovandosi dietro decine di metri di filo spinato, espressione di un egotismo che non conosce remore e che adopera codici e leggi militari al solo fine di non affrontare la sconfitta subita in battaglia.


















L'esecuzione diviene così l'ago della bilancia in un gioco di potere; gioco che in realtà non si combatte tra i due eserciti, tanto più che la guerra è terminata; lo scontro è quello tra l'istituzione e il popolo, una battaglia per garantire la percezione di insindacabilità dell'esercito e delle sue decisioni. Tutto viene così subordinato all'apparenza, ad una "ragion di Stato" che prende le forme della rispettabilità da imporre attraverso il terrore, in una coerenza che in realtà esiste solo per perorare il proprio potere, piuttosto che sfoggiarlo davanti ad uno spettatore (la popolazione comune in un sistema democratico) in realtà assente. 
Montaldo descrive così in modo schietto tutta la carica disumana che si cela dietro i meccanismi del comando, con un piglio retorico impossibile da mettere in discussione. Laddove perde colpi, paradossalmente, è nella semplice costruzione drammaturgica.


















Manca vero coinvolgimento, in Gott mit Uns; in una storia che richiede non la semplice indignazione morale, ma anche la contrizione emotiva non ci si ritrova mai davvero a percepire il dolore e la disperazione dei personaggi; emozioni vengono cucite addosso al personaggio di Grauber e ai suoi scatti d'ira verso le autorità, con la conseguenza che non c'è mai davvero un momento nel quale si riesce a provare vera commozione verso i due condannati. L'impianto dialogico del film è certamente corretto, portando ad un confronto serrato tra gli esponenti del potere, ma si avverte la mancanza di una vera scena madre che possa generare vera empatia verso i personaggi; questo nonostante nella prima parte vi siano un paio di scene (quelle con Bud Spencer, per intenderci) dove si cerca anche di dare spazio al lato più strettamente umano e emotivo della vicenda, senza però riuscirci davvero.
La freddezza e il distacco, certamente non voluti, finiscono così per rendere la visione per certi versi inefficace; il lavoro di Montaldo è certamente corretto anche sul piano della semplice formalità della messa in scena, ma questa mancanza di mordente rende tutta l'opera certamente riuscita, ma non molto coinvolgente.

martedì 3 settembre 2024

MaXXXine

di Ti West.

con: Mia Goth, Elizabeth Debicki, Moses Summey, Giancarlo Esposito, Kevin Bacon, Halsey, Michelle Monaghan, Bobby Cannavale,  Sophie Tatcher, Lilly Collins.

Thriller

Usa, Regno Unito, Nuova Zelanda
















---CONTIENE SPOILER---

Concludere degnamente una trilogia non è compito facile e soprattutto nel cinema americano gli esempi di terzi capitoli sottotono rispetto ai predecessori non sono mai mancati. Fortunatamente, Ti West, con il suo MaXXXine, è riuscito a creare una sfolgorante eccezione a tale regola non scritta.
La coda della storia di Maxine Minx, iniziata con X e proseguita con il prequel Pearl, è il capitolo forse più riuscito di questo bel trittico che omaggia il cinema americano e non, exploitation e non; che omaggia, in sostanza, il cinema, la sua forza espressiva, creativa e distruttiva, che con questo finale viene rappresentato anche per quel che accade dall'altro lato della macchina da presa, in una riuscita commistione di omaggio cinefilo e spaccato drammatico.



















Los Angeles, 1985. Maxine (Mia Goth), sopravvissuta a quello che è stato definito "The Texas Porn Star Massacre", è ora un'affermata interprete di film per adulti che cerca di fare il salto di qualità verso il cinema mainstream. Il passaggio intermedio è dato dal cinema horror, con un provino riuscito per una produzione diretta dall'affascinante regista Elizabeth Bender (Elizabeth Debicki). Ma all'improvviso, un lercio detective privato (Kevin Bacon) inizia a tampinarla, mentre le strade di L.A. sono sconvolte dalla violenza di Richard "Night Stalker" Ramirez, il quale sembra essere più vicino alla ragazza di quanto possa sembrare...






















Laddove X omaggiava il cinema "sporco" degli anni '70 e Pearl gli anni d'oro della prima Hollywood, MaXXXine riporta in auge un filone in parte più oscuro, quello dato dai thriller ad ambientazione metropolitana degli anni '70 e '80. Un filone forse definibile come "sleazeploitation" il cui exploit più famoso è l'immortale Taxi Driver di Scorsese, ma che conta anche altre innumerevoli pellicole degne di nota: si pensi a Vice Squad (esaltato all'epoca della sua uscita proprio da Scorsese), Hardcore di Paul Schrader, China Blue di Ken Russell, il Maniac di William Lustig, The Driller Killer e Fear City di Ferrara e persino Lo Squartatore di New York di Lucio Fulci. Tutti film che descrivono la metropoli americana come un coacervo di depravazione e violenza che corrodono l'individuo, arrivando anche a distruggerlo fisicamente per il tramite della violenza gratuita.
West qui riporta quell'immaginario fatto di strade lerce lastricate di luci al neon, lucciole, papponi e psicopatici armati di coltello in modo certosino: la Hollywood Bld. qui ritratta sembra davvero uscita da un sleazeploitation del 1981 tanto è la cura riversata nella sua ricostruzione; eppure, al contempo, West sa come rendere verosimile questa ricostruzione, senza appiattirla sulla semplice nostalgia o, peggio, sulla mera citazione cinefila sterile, benché i rimandi anche diretti ai numi tutelari non manchino praticamente mai.





















La L.A. di MaXXXine è la L.A. del cinema americano di genere, elevata però a sogno febbrile filmico, una metropoli pazza e sporca dove tutto è un rigurgito dell'immaginario collettivo hollywoodiano e persino i pervertiti armati di coltello travestiti da Buster Keaton. Eppure, questa L.A. di un'epoca che mai fu è anche il sogno febbrile della vera Los Angeles del 1985, con una certosina ricostruzione storica che si salda indistinta con quella cinefila.
Per le strade si aggira il vero Richard Ramirez e il suo regno di terrore finisce per influenzare direttamente la trama del film, pur se in maniera non decisiva; prima ancora, è il panico satanista a eruttare per i viali di Hollywood, con le orde di genitori preoccupati pronti a manifestare contro la produzione di un innocui horror da accatto, accusati di traviare i giovani verso il maligno. E' proprio tale aspetto, tale commistione tra realtà e fantasia cinefila, a costituire il risvolto più originale e radicale dell'opera di West, che qui porta a coronamento il discorso sul "perbenismo assassino" già iniziato in precedenza. Per comprenderne la portata è però essenziale tenere presente l'identità del vero killer che perseguita Maxine per tutta la durata del film.


















Identità il cui disvelamento rappresenta anche il punto debole del film: soprattutto se si guarda questo terzo film in prospettiva con il primo (cosa in realtà non obbligatoria per comprendere storia e significato) o si tiene anche semplicemente conto di quel prologo dato da un filmato famigliare d'antan, non si possono che unire immediatamente in puntini e comprendere come l'assassino altri non sia che il padre di Maxine, quel predicatore infervorato stile Estus Pirkle i cui sermoni apocalittici invadevano sovente le immagini di X; il quale è ora a L.A. per riportare il timore di Dio nei peccatori a suon di coltellate e sventramenti.
Svolta debole quanto si vuole, ma che dona un significato decisivo al film soprattutto in rapporto al filone di riferimento: questa prospettiva altro non è che un ribaltamento di quella vista in Hardcore; se nel capolavoro di Schrader il buon padre di famiglia timorato di Dio interpretato da George C.Scott si immergeva nel lerciume della metropoli per ritrovare una figlia creduta rapita e costretta a girare porno, la quale si scopriva in realtà fuggita di casa per sottrarsi ad una vita opprimente, in MaXXXine il punto di vista è quello della ragazza fuggita, la quale, benché non venga ma descritta come una vittima di nulla, è fuggita anche lei da un quadro famigliare caratterizzato da una religiosità asfissiante che si ripresenta nelle forme di un castigo divino deviato.
La perdita di orientamento tra Bene e Male viene reinterpretata da West come conseguenza di un'oppressione religiosa che punta a castrare tutto e tutti in funzione di un bene dato unicamente dalla rinuncia; ma (ed è cosa nota praticamente a tutti) una rinuncia imposta non può che generare ribellione, da cui il rigetto della costrizione e l'abbraccio, da parte di Maxine, di un male utile a perseguire i propri fini (per paradosso puro, il suo mantra di autoaffermazione si scopre qui essere una devianza inculcatale dal padre in buona fede). Corrispettivamente, la reazione conservatrice ad un mondo che la rivoluzione sessuale e culturale ha reso più libero, ma anche più pericoloso è quella violenza che proprio i conservatori di stampo cristiano (ma non cattolico) paradossalmente aborriscono. Certo, quello di West non è certo il primo predicatore pazzo che il cinema di genere americano porta in scena e proprio Fear City, ossia uno dei punti di riferimento del filone, ne presentava uno dei primi circa quarant'anni fa, ma quello di MaXXXine risulta a suo modo memorabile soprattutto laddove lo si inserisce nel contesto del significato del film.


















Nel mondo di MaXXXine il bene e il male, così come comunemente intesi, non esistono e l'unica linea di discrimine esistente per categorizzare le azioni umane è quella tra vittime e carnefici. Maxine non è di certo una semplice final girl, non lo era nel primo film, men che meno lo è nel terzo e ciò viene ribadito nella bella scena dell'aggressione, dove dimostra di essere lei stessa una carnefice priva di veri rimorsi. L'unico massimo sistema qui esistente è l'affermazione individuale, sia essa quella data dal successo materiale, sia essa quella data nell'affermazione di una propria personale ideologia. Hollywood, di conseguenza, non è semplicemente la Mecca del Cinema a cui sacrificare tutto per ascendere, quanto il luogo ideale dove poter sfogare il proprio egoismo al fine di averne un profitto materiale. In questo, West usa la metafora del mondo dello spettacolo sia in modo originale, sia in modo classico, creando una storia di rincorsa al successo tanto deviata quanto archetipica.


















La metafora sul successo si salda poi con il thriller classico ed è qui che West unisce all'omaggio allo sleazesploitation quello ai maestri del genere, ossia Alfred Hitchcock e ai suoi ideali figli Dario Argento e Brian Del Palma.
Psycho, già nume tutelare in Pearl, ora rivive della scenografia originale del Bates Motel, riutilizzata per il celeberrimo sequel Psycho II del 1983; ed è qui che West inserisce anche lo spaccato di un'epoca che cambia: il cinema di genere sta subendo una mutazione, con molti exploit che divengono straight-to-video; la videoteca diviene così luogo di culto filmico nel quale il passato forse più illustre e il presente dei sequel fuori tempo massimo e dell'exploitation più rozza iniziano a coesistere. In tale momento delicato, il rigetto del pubblico per il sesso e la violenza portano ad una visione ancora più cinica di quel cinema, da cui l'unico vero omicidio mostrato su schermo, quello del videotecaro e amico Leon (Moses Summey) in una scena che sembra uscita dritta dritta da un giallo di Argento, con tanto di killer dai guanti neri e completo in pelle omaggio non solo al cineasta nostrano, ma anche al Vestito per Uccidere di De Palma, il cui stile ritorna anche nell'uso degli split-screen e di una macchina da presa che spesso si muove libera negli ambienti.



















Laddove il limite di X consisteva nella riproposizione amorevole, ma meccanica di stilemi e situazioni e quello di Pearl in uno script privo di vera inventiva, qui West riesce in un'impresa a dir poco impossibile, ossia quella di far coesistere l'omaggio cinefilo con lo spaccato d'epoca e il ritratto di un personaggio complesso; MaXXXine dimostra un equilibrio di scrittura e messa in scena a dir poco miracoloso, che scade solo nella canonica costruzione da thriller e, nuovamente, in una mancanza di originalità ora quantomai scusabile; per il resto, è un exploit meraviglioso che conclude più che degnamente quella che, a conti fatti, è davvero una bella trilogia.