domenica 24 febbraio 2013

Non Aprite Quella Porta

The Texas Chainsaw Massacre

di Tobe Hooper

con: Marilyn Burns, Gunnar Hansen, Allen Danziger, Paul A. Partain, Edwin NealJim Siedow, William Vail, Teri McMinn.

 Horror

Usa (1974)
















E' giusto considerare un regista come un grande autore pur quando l'unico vero capolavoro della sua carriera è anche il suo primo vero film?
Di norma no, si parlerebbe più che altro di un ottimo artigiano, magari anche di un autore dotato di un proprio stile riconoscibile che, seppur dotato, non merita di essere incluso nel pantheon dei migliori.
Ma con Tobe Hooper l'eccezione è d'obbligo, perché quel suo secondo film (il suo esordio con "Eggshells" è poco più di un film amatoriale, anche se interessante), l'imprescindibile "The Texas Chainsaw Massacre", è entrato giustamente negli annali della storia del cinema e si è impresso a fuoco nell'immaginario collettivo come una delle pellicole più scostanti, sperimentali e dirompenti della produzione americana tutta; il che è ancora più eccezionale se si tiene conto di come sia stato prodotto e distribuito nel periodo d'oro della New Wave di Hollywood e della golden age del cinema dell'orrore a stelle e strisce, periodo di una fertilità artistica unica; al punto che si comprende così perfettamente la sua inclusione addirittura nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, affianco ad altri capolavori della Settima Arte quali "Quarto Potere" (1943) e "Blade Runner" (1982).






Ma facciamo per un attimo un passo indietro, per meglio comprendere la forza del film.
Negli anni '70, sull'onda della Nouvelle Vague francese del decennio precedente, il cinema americano si rinnova, aggiorna stile, stilemi e tematiche fino a raggiungere quello che è tutt'ora il suo apice; una nuova generazione di filmmaker nati e cresciuti nel cinema underground e indipendente o formatosi mediante il mezzo televisivo, quali Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Robert Altman e Arthur Penn, invade Hollywood e la ristruttura dalle fondamenta; nascono così capolavori quali "I Compari", "Taxi Driver" e "Apocalypse Now", solo per citarne alcuni.
Nel panorama indipendente, quello dei "B-Movies da Drive-In", invece, il cinema di genere viene totalmente riscritto ed aggiornato: l'horror, in particolare, viene svecchiato, epurato dalle incrostazioni del gotico e riletto come metafora delle paure moderne.
Questo grazie a George A.Romero e al suo mitologico "La Notte dei Morti Viventi" (1968): girato con un budget risicato e quasi esclusivamente con camera a mano, la pellicola del grande regista di Pittsburgh è l'apripista di un filone che possiamo definire "horror neo-realista", poiché nello stile e nei temi si fa più vicino alla realtà di quanto non fosse mai stato prima, pur rimanendo ancorato all'iperrealismo per ovvie necessità estetiche e narrative. 
Il primo tassello di questo nuovo modo di intendere l'orrore è "L'Ultima Casa a Sinistra" (1972), esordio alla regia di Wes Craven e magnifico remake de "La Fontana della Vergine" di Bergman; ma è un'altra pellicola, due anni dopo, ad imporsi come paradigma definitivo: "The Texas Chainsaw Massacre" (distribuito in Italia con lo strano titolo "Non Aprite Quella Porta") di Tobe Hopper, appunto.







Forse ispirato dalla probabile visione del mitico "Reazione a Catena" (1971) di Mario Bava, oltre che dell'esordio di Craven, Hooper elabora una storia semplicissima, basata sulle gesta dello psicopatico di Plainsfield Ed Gein e su una serie di leggende del profondo sud degli Stati Uniti: cinque ragazzi, in viaggio su di un pulmino nel Texas rurale, incappano per sbaglio in una famiglia di psicopatici cannibali assetata di sangue, tra i quali spicca per presenza il mostruoso Leatherface (Gunnar Hansen). 






Pur riassumibile in pochissime righe, la trama è già di per sè elemento essenziale della pellicola: ridotta all'osso, appunto come negli horror di Mario Bava, presenta, praticamente per prima nel cinema americano, tutti i topoi del cinema horror dei decenni a venire, ovvero un gruppo eterogeneo di adolescenti catapultato in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio e in balia dell'assassino di turno, la "final girl" Sally (Marilyn Burns) ossia l'ultima superstite al massacro rigorosamente di sesso femminile, l'escalation di violenza della seconda parte che si contrappone ad una prima parte più tranquilla; e, naturalmente, l'introduzione del concetto di assassino come figura iconica: Leatherface ("Faccia di pelle" nella versione italiana) è in tutto e per tutto la prima icona horror moderna, che precede di quattro anni il Michael Myers carpenteriano (anche se giunto su schermo dopo lo zombi di Romero, figura che però per sua stessa definizione non ha una personalità che vada oltre la pura estetica). 
Leatherface, a differenza degli altri "mostri" della new wave horror, non è una creatura sovrannaturale, ma un semplice essere umano frutto dell'imbarbarimento rurale, una creatura deforme nella mente prima ancora nel corpo e totalmente marcia nello spirito; un "idiota campagnolo" del tutto incapace di discernere il bene dal male, che bracca le vittime come un macellaio impazzito, riducendole a pura carne da fare a pezzi e divorare.





Come ne "L'Ultima Casa a Sinistra", l'orrore non scaturisce più da elementi ultraterreni, ma smaccatamente immanenti; la famiglia di cannibali è l'emblema di una violenza innata, propria dell'America figlia di Nixon e del Vietnam, una violenza che striscia al di sotto del tessuto sociale, pronta ad esplodere al minimo accenno di squilibrio; un orrore che ora non si aggira tanto per la città (come nel film di Craven), ma che domina le zone rimaste estranee alla rivoluzione culturale, all'evoluzione dei costumi ed alla contestazione. 
La violenza della famiglia Sawyer e di Leatherface è quindi atavica: ecco dunque la figura del nonno, morto vivente che si rianima con il sangue, famoso per la sua ferocia nell'abbattere i manzi; nell'America più profonda e rurale, dove i mostri sono figli dell'ignoranza e frutto di incesti, l'estraneo (i ragazzi di città) non può essere altro che vittima, appunto "carne da macello" da martoriare e divorare.





Nonostante la relativa inesperienza nel lungometraggio, Hooper dimostra già di possedere uno stile solido; con camera a mano d'ordinanza come nel cinema della Nouvelle Vague, gira tutto il film ad altezza d'uomo, pedinando spesso i personaggi ed imprimendo ad ogni scena un ritmo veloce, dato dal montaggio secco. Le sue inquadrature sono, alternativamente, scarne o estremamente elaborate: si passa da primi e primissimi piani incredibilmente espressivi a campi lunghi dove il lavoro sulla scenografia crea un'atmosfera da incubo, che si incastra miracolosamente alla perfezione con la ricercata verosomiglianza nell'estetica.






Infatti, ancora una volta come già fatto da Craven, anche in regista di Austin gira tutto il film in 16mm e lo gonfia in post-produzione a 35mm: l'immagine così si sgrana e si deforma, come se l'intera pellicola fosse un documentario o fosse girata sul posto mentre avvengono gli orrori raccontati; sopratutto, costruisce, assieme allo sceneggiatore Kim Henkel, l'interna narrazione come un gigantesco climax: man mano che la pellicola procede, la tensione sale fino ad esplodere in un incubo infinito; in tutta la seconda parte, con Sally inseguita e poi catturata da Leatherface, il piglio "verista" lascia spazio ad una messa in scena più stilizzata per quanto al contempo ruvida, che trasforma la realtà in un incubo senza fine che non lascia scampo e che si conclude di punto in bianco, senza un epilogo consolatorio vero e proprio, in cui la mera sopravvivenza è la sola ricompensa alla quale la protagonista può aspirare.
Inutile citare la magnifica sequenza della "cena cannibale", che secondo la leggenda ha richiesto oltre 14 ore di riprese ininterrotte, tutta basata sugli stacchi e sul sadismo spicciolo, dove la final girl diviene carne al macello, con le sue grida che sfociano in quelle di un maiale maciullato. Il tocco di Hooper è semplicemente magico: riesce ad essere inquietante e disturbante con poco, lasciando che sia in primis l'atmosfera a spiazzare.




Ciò anche a causa dello scarso budget a disposizione, che non permette l'uso di effetti speciali: tutto la splatter viene lasciato fuori scena, la motosega di Leatherface, di fatto, non taglia mai la carne dei personaggi; e qui la maestria dell'autore è immensa: l'assistere alle uccisioni, solo suggerite, è ancora più disturbante proprio perché l'assenza dell'effetto speciale, della carne maciullata, priva l'occhio di ogni catarsi, non restringe la sensazione ad un'immagine precisa, permettendo al cervello di prefigurare il peggio; la mente, così, diviene la macchina da presa e l'immagine, paradossalmente, è più forte; immagine che, con una trovata geniale, rende l'idea del degrado umano della famiglia mediante la scenografia: le ossa, i resti di animali e di persone sparse per la casa emanano un fetore ed un senso di malessere unico, che colpiscono dritto allo stomaco come nessun effetto gore riuscirebbe.





A distanza di quasi quarant'anni dalla sua uscita, "The Texas Chainsaw Massacre" resta una pellicola horror inarrivabile, la perfetta dimostrazione che con pochi soldi e molte idee si possa produrre un piccolo grande capolavoro; ed è un vero peccato che Hooper non sia più riuscito a ripetersi, sopratutto a causa del produttore di turno pronto a castrarne la visione, arenandosi in una serie di successive produzioni via via più mediocri, tra cui il primo seguito del suo cult, lo strambo "The Texas Chainsaw Massacre 2" (1986), apripista di un'infausta serie di sequel e remake.

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