lunedì 18 febbraio 2013

Innocence: Ghost in the Shell 2


Innosensù

di Mamoru Oshii

Animazione/Fantascienza/Cyberpunk/Noir

Giappone (2004)


 
















Quando il primo "Ghost in the Shell" (1995) venne presentato, nell'ormai lontano 1996, al Festival di Venezia, forse in pochi tra le fila della Production I.G. si sarebbero aspettati il successo ed il plauso universale che poi avrebbe ottenuto in Occidente; poiché era facile presentare un'opera tanto complessa e spiazzante al pubblico veneziano, il cui Lido è da decenni una finestra perfetta sul cinema orientale, ma ben più ostica sarebbe stato quel pubblico generalista facilmente alienabile da forme narrative troppo lontane dai paradigmi basici (e talvolta beceri) a cui sono abituati.
Fortuna volle che l'esito fu esattamente opposto: divenuto in brevissimo tempo una hit ai botteghini del mondo (anche se in Italia, dopo la presentazione al Festival di Venezia, giunse direttamente in un'edizione VHS flagellata da un adattamento poco preciso dei dialoghi, anche se graziata da un doppiaggio superbo), "Ghost in the Shell" fu invece un successo solo tiepido in patria, dove le avventure della Sezione 9 e gli enigmi esistenzialisti di Motoko Kusanagi e del Marionettista non fecero presa più di tanto sul pubblico; il che è quasi normale se si pensa che nello stesso anno, in televisione esordiva "Neon Genesis Evangelion", riportando share di ascolti bassissimi; proprio come l'opera di Hideaki Anno, anche quella di Oshii divenne oggetto di culto solo con gli anni, tanto che per produrre un sequel l'autore dovrà aspettare parecchi anni.




Questi arriverà nelle sale solo nel 2004, deludendo nuovamente sul piano economico: a fronte del budget stratosferico di 2 miliardi di yen (circa 20 milioni di dollari, cifra eguagliata solo con i successivi adattamenti per il Grande Schermo de "La Corazzata Spaziale Yamato" e "Capitan Harlock"), "Innocence" ne incassa in patria poco più di 7 milioni, producendo perdite per la Production I.G., nonché per lo Studio Ghibli, qui partner produttivo necessario visto l'ingente quantitativo di denaro richiesto per dar vita alle visioni di Oshii.
Flop che continua questa volta anche all'estero, dove, nonostante la distribuzione sia affidata nientemeno che alla Dreamworks, "Innocence" non guadagna i soldi sperati, né riesce ad imprimersi come il paradigma fantascientifico del nuovo millennio. Il che è un controsenso quando si tiene conto del successo della serie "Stand Alone Complex", i cui DVD vanno a ruba sia in Europa che in America. E che si spiega ancora meno quando si tiene conto di come alla presentazione al Festival di Cannes sia stato accolto bene, riuscendo persino ad arrivare alla finale per la Palma D'Oro, record assoluto per un film d'animazione.
L'incapacità per il pubblico di recepire "Innocence" si spiega però facilamente una volta che si trova davanti ad esso, disvelandosi non come un semplice sequel, ma come una perfetta evoluzione di tutte le tematiche presenti nel primo film, che solleva nuovi interrogativi mediante una forma filmica ancora più complessa.
























Dal canto suo, Shiro Masamune aveva già dato su carta una duplice continuazione al suo manga, ormai divenuto di culto. Tra il 1991 e il 1996, scrisse una serie di racconti autoconclusivi con al centro i membri della Sezione 9, ambientati dopo la scomparsa del Maggiore, poi raccolti nell'antologia "Ghost in the Shell 1.5: Human-Error Processor", che aggiungono una ideale coda al manga originale. Il sequel vero e proprio arriva nel 1997 con "ManMachine Interface"; ambientato anni dopo l'evoluzione di Motoko, segue una sua strana indagine su di un hacker, che si intreccia con il colloquio tra il capo della Sezione 9, Haramaki, con una potenziale Esper. Storia caratterizzata da una narrazione sconnessa, volutamente astrusa, talmente impossibile da seguire da divenire ben presto illeggibile.
Per fortuna, Oshii decide di non trasporre queste storie su schermo, adattando un piccolo capitolo autonomo della prima serie del manga, intitolato "Robot Rondo". E questa volta scrive lo script di suo pugno, facendo a meno della collaborazione del fidato Kazunori Ito, con tutte le conseguenze del caso.





Sparito il Maggiore, la Sezione 9 si ritrova senza un capo operativo. Le operazioni vengono così gestite sul campo da Batou, ora affiancato da Togusa; un duo di sbirri che ricorda quello dei polizieschi classici: il primo più diretto e brutale a causa della sua natura di ibrido uomo-macchina, il secondo più riflessivo e naif, data la sua forte componente umana ed il suo attaccamento al nucleo familiare.
La solitudine di Batou è protagonista di gran parte della narrazione: lo seguiamo mentre interagisce durante le indagini, così come nei lunghi silenzi della sua vita privata; l'assenza di Motoko pesa su di lui come sul resto del gruppo e la sua ricomparsa, improvvisa lo coglie di sorpresa risvegliandone gli affetti sopiti.
Al centro delle indagini, un caso più inquietante di quello del Marionettista: la rivolta di un gruppo di prototipi di gynoidi da compagnia, delle robot-geisha che di punto in bianco cominciano a massacrare i soggetti ai quali la casa di produzione, la Locus Solus, li ha donati prima dell'immissione sul mercato.




Lo sguardo di Oshii verso il mondo in cui si muovono Batou e soci si fa meno distaccato, colorandosi di una luce sinistra; agli interrogativi che solleva sembra voler sussurrare una risposta (pur sempre vana ed aperta a più interpretazioni) sinistra; l'atmosfera tende spesso verso l'horror, così come l'immaginario si fa a tratti volutamente disturbante, rifacendosi per la forma delle gynoidi alle sculture di Hans Bellmer; le loro forme sono vicine eppure lontane da quelle umane, sprofondando in quell' "uncanny valley" della percezione che le rende mostruose all'occhio umano.
Il mood è piùcupo ed asfissiante, l'indagine viene tratteggiata in modo ancora più simile a quella di un noir classico, allontanandosi spesso dalle atmosfere più squisitamente cyberpunk. Il mondo stesso in cui ritroviamo Batou è sensibilmente diverso da quello del primo film, più buio e sporco, più desolante.




Gli interrogativi anche questa volta partono dal più basico dei quesiti esistenzialisti: cosa rende una creatura davvero umana?
Batou si ritrova ad attraversare un momento di crisi identitaria simile a quello di Motoko e lo affronta grazie alla umanità di Togusa. In un mondo dove l'essere umano tende verso la macchina, la transumanazione dell'uomo verso il meccanico è una forma di avvicinamento al divino; persi i limiti corporali, l'uomo è virtualmente immortale; abbandonata l'individualità, si avvicina all'onnipresenza (anche se quella di Motoko resta una singolarità). Di converso, l'automa cerca di divenire simile al suo creatore: l'ingegneria cerca di creare modelli di robot da compagnia sempre più sofisticati, per questo sempre più simili all'uomo; l'orribile rivelazione finale mostra come la duplicazione del ghost di alcune ragazzine possa dotare le gynoidi di un'anima che, pur duplicata, genera una coscienza. Da qui l'interrogativo supremo: cosa le rende davvero dissimili da un essere umano vero e proprio?




Il cyborg è il nuovo essere umano, l'androide è la nuova frontiera della macchina, virtualmente identica all'uomo ed ora dotata di una coscienza che, pur surrogata, è tale. Ma allora la linea di discrimine può davvero esistere?
Citando Cartesio, Oshii pone un dubbio: una bambola che ha l'aspetto di un essere umano e viene trattata come un essere umano, può a certi livelli essere definita come un essere umano? Di converso, gettando una luce inquietante sulle moderne filosofie riduzioniste, Oshii ne deduce come l'uomo possa essere al pari della macchina scomposto in elementi essenziali, semplici reazioni meccaniche di natura biologica, rendendolo di fatto un robot di carne, una macchina del moto perpetuo cosciente. Ne consegue come anche tutti i fenomeno a lui connessi non siano altro che effetti aritmetici misurabili, scomponibili, privi di vera unicità (la citazione che apre il film sottolinea come di conseguenza anche l'amore altro non è se non una grandezza misurabile).
Laddove l'uomo è macchina, la macchina è uomo; l'androide è una copia dell'essere umano che di conseguenza ne ha pari dignità: le gynoidi usate per rivelare il rapimento delle vere bambine sono anch'esse dotate di vera coscienza e di conseguenza il loro è vero dolore. Eppure, private di questa coscienza, loro non sono che bambole; e ancora, di conseguenza, tra una bambola di metallo ed una di carne non c'è differenza.




L'orrore che ne scaturisce viene sottolineato in modo sottile, mediante l'incubo di Togusa o con l'insistere dell'occhio sui dettagli disumani delle gynoidi: i loro corpi fatti a pezzi, bruciati o privi di controllo sono l'orrore di un corpo umano che non è tale, pur avendo natura simile.
Al contempo, laddove anche l'essere umano è pura informazione, la sua percezione del reale può essere manipolata sino alla distruzione della certezza su ciò che sia esperienza e ciò che invece è simulazione; da cui la lunga, ipnotica ed inquietante sequenza che chiude il secondo atto, con gli scherzi dell'hacker Kim, in una ripresa delle intuizioni di Philip K.Dick rielaborate in modo convincente.




La dualità tra originale e copia, sembra voler dire Oshii, si assottiglia sino a sparire: così come un androide dotato di un surrogato di ghost ha lo stesso valore di un umano fatto e finito, anche un duplicato totale ha il medesimo valore del suo originale o, comunque, una sua forma di valore. Statuizione che su di un piano extradiegetico e del tutto metareferenziale sembra voler applicare al film stesso: di fatto, "Innocence" è una copia di "Ghost in the Shell". Entrambi sono liberi adattamenti di un lavoro altrui, entrambi si rifanno ad autori occidentali per intavolare riflessioni esistnzialiste calate in contesti ancora di lì da venire, entrambi fondono fantascienza cyberpunk con il poliziesco noir, entrambi usano un mix di animazione classica e CGI, entrambi riprendono temi e spunti visivi dal "Blade Runner" di Scott. Ed "Innocence" ha una struttura narrativa che ricalca in parte quella dell'originale: si apre con una sequenza d'azione che introduce (in questo caso re-introduce) un protagonista in preda ad una crisi identitaria, segue un'indagine che culmina in una catarsi liberatoria, le sequenze d'azione sono connesse allo stesso modo alla trama, c'è un momento nel quale l'azione si ferma per dar spazio alla sua quotidianità ed un altro nel quale vediamo la ricchezza del mondo che vive con i suoi occhi (la scena del traghetto nel primo film, quella della parata nel secondo).
"Innocence" è in sostanza un duplicato di un originale, dotato però di una propria anima; poiché questo duplicato è una forma evolutiva di una base: uguale e diverso, ne riprende forma e tematiche per andare oltre, restando uguale a ciò che era e al contempo autonomo.




Il cambio di toni porta anche al cambiamento visivo. L'estetica è più vicina a quel "Blade Runner" (1982) che Oshii stesso definì opera la cui influenza è impossibile da fuggire. Alle dominanti verdi e blu del primo film, si sostituiscono luci magenta e tagli espressivi, così come i dialoghi tra i due protagonisti, veloci e taglienti, sono quelli di un noir anni '40; ancora di più, l'estetica del mondo viene rigenerata, giustapponendo tecnologie avvenieristiche a vetture d'epoca, passando da un futurismo modernista ad un post-modernismo vero e proprio.
L'intreccio, al solito di stampo poliziesco, viene condotto in modo ancora più ligio ai canoni, con l'indagine che si snoda in modo non-lineare. Ma alla costruzione poliziesca viene affiancata un'esasperazione dei risvolti orrorifici. E' per questo che pur essendo un duplicato, ossia il seguito di un altro "organismo", "Innocence" ha una sua anima, un suo stile autonomo, benché più vicino alle fonti di ispirazione.




Laddove Oshii inciampa è però nella costruzione dei dialoghi. Se il taglio da film noir è perfettamente riuscito, le riflessioni messe in bocca a Batou e Togusa sono fin troppo didascaliche, troppo basate sulla singola citazione per poter essere feconde. Si fatica, talvolta a coglierne il senso e la mente non è stimolata alla riflessione come in passato.
Difetto tutto sommato veniale: la regia è magistrale, l'uso ipnotico delle immagini e le commistioni tra le diverse suggestioni è di una finezza rara. "Innocence" al pari di "Ghost in the Shell" è un capolavoro di forma e contenuto: una pellicola stratificata e cosciente dei suoi limiti, meno stimolante del suo predecessore e più ostica, ma al contempo incredibilmente riuscita. E, pur se non riconosciuta in quanto tale, resta l'opera sci-fi più importante del decennio.






EXTRA


Al contrario di "Ghost in the Shell", "Innocence" fu "graziato" di una pur tarda distribuzione in sala in Italia: nell'agosto 2006 venne infatti distribuito con il fuorviante titolo "Ghost in the Shell 2: L'Attacco dei Cyborg"





A partire dal 2012, la Dynit ha acquisito i diritti di tutta la serie ed ha redistribuito in DVD e Blu-Ray sia gli anime televisivi che i due film cinematografici, cambiando il titolo del secondo film nel più consono "Innocence: Ghost in the Shell 2".



L'edizione di "Innocence" presenta il medesimo doppiaggio, di ottima fattura sia nell'adattamento che nelle interpretazioni, usato per la versione cinematografica, ad opera della Eagle Pictures. In compenso, quella di "Ghost in the Shell" è stata integrata da un nuovo doppiaggio, i cui dialoghi sono più fedeli agli originali piuttosto che all'imprecisa traduzione americana su cui era basata la prima traduzione (effettuata dalla Polygram Pictures). Il cast dei doppiatori è stato anche cambiato: sono ora gli stessi dell'edizione di "Innocence", con Alessandro Rossi per Batou e Alessandra Korompay per Motoko; l'unico cambio riguarda il personaggio di Togusa: mentre in "Innocence" era doppiato da Riccardo Rossi, nella nuova versione di "Ghost in the Shell" ha la voce di Francesco Bulckaen.

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