lunedì 18 febbraio 2013

Django Unchained

di Quentin Tarantino

Con: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Walton Goggins, Franco Nero, Don Johnson.

Western

Usa (2012)


 










Lo spaghetti western è da sempre uno dei punti di riferimento del cinema di Tarantino: fin dagli esordi in "Le Iene- Cani da Rapina" la dilatazione del ritmo e la costruzione delle scene basata sulla colonna sonora, propria del cinema di Sergio Leone, e le esplosioni di violenza imporovvise, proprie di quello di Corbucci, hanno rappresentato i punti cardine dello stile del geniale cineasta americano; l'idea di realizzare un western "del sud", vicino ai canoni di quello italiano degli anni '60 e del western crepuscolare alla Monte Hellman, pare tormentasse il buon Quentin da sempre; subito dopo il successo di "Bastardi senza Gloria" (tutt'ora il vertice massimo del suo cinema) ecco dunque giungere questo "Django Unchained", con il quale Tarantino non solo ci regala un'ottima pellicola di genere, ma, sopratutto, ci dimostra come la sua idea di cinema non si sia ancora fossilizzata, ma sia ancora in piena evoluzione.


Nel 1858, il cacciatore di taglie King Schulz (Christoph Waltz) libera lo schiavo nero Django (Jamie Foxx) e stringe con lui un accordo: aiutarlo a catturare un gruppo di banditi in cambio della libertà della moglie Broomhilda Von Shaft (Kerry Washington), tenuta prigioniera da Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), proprietario di una gigantesca piantagione di cotone nel Missisipi.




Fin dalle prime scene l'influenza del western italiano è palese: ai grandi spazi della frontiera americana si sostiuiscono una steppa aspra e brulla e gigantesti monti innevati; i personaggi si muovono su percorsi laterali, quasi mai verticali, eliminando così molta profondità di campo: John Ford e le sue praterie sconfinate sono un ricordo del tutto cancellato dall'immaginario tarantiniano; molte delle azioni dei personaggi principali vengono sottolineate da zommate e panoramiche a schiaffo che sembrano uscite dritte dritte da "Vado, l'ammazzo e torno" per quanto sono insistenti e precise; eppure Tarantino riesce a stupire: a differenza di "A Prova di Morte" e come in "Bastardi senza Gloria" le sue famose citazioni si fanno più sottili, meno esibite ed enfatizzate, fino a divenire semplici omaggi; ogni dialogo, ogni azione ed ogni citazione sono subordinate alla storia e al racconto; e proprio quest'ultimo rappresenta un nuovo punto di svolta nel cinema dell'autore americano: esso è, praticamente per la prima volta, toalmente lineare; la divisione in tre atti, propria del cinema americano classico, è netta, non vi sono sottocapitoli, nè scissioni del racconto in due o più parti; come nella pellicola precedente manca ogni forma di autoreferenzialità e manierismo: pur continuando a giocare con le forme narrative, Tarantino si evolve, muta e mette in discussione tutte le soluzioni narrative che ha sperimentato in passato; emblematico è in proposito il secondo atto, in cui l'autore rifà in modo totalmente diverso la magnifica sequenza della cantina di "Bastardi senza Gloria", con la differenza che qui non si ha un crescendo perennemente interrotto al fine di creare tensione, bensì una scissione in due parti nette della scena: una prima parte più statica e rilassata che si contrappone ad una seconda perennemente tesa, che culmina di punto in bianco in un massacro; il racconto si fa, così, più rigoroso ed efficace, solido e coinvolgente fin dai primissimi minuti, prova che Tarantino è pronto a sperimentare nuove vie linguistiche nonostante i venti anni di successi che ha alle spalle.



Ma "Django Unchained" è sopratutto un film di contenuti: uno spaccato dell'America alla vigiglia della Guerra di Secessione e del vergognoso capitolo della schiavitù; schiavitù mai apparsa in maniera così vivida e pulsante su schermo: con una messa in scena di genere, il regista ci fa entrare direttamente nell'atmosfera dell'epoca, dipingendo gli schiavi come delle bestie pronte per il macero costrette a sopportare tutte le angherie possibili ed immaginibili a causa dei vizi dei loro padroni; questi ultimi, invece, non vengono descritti come intraprendenti capitalisti in cerca di fortuna, per quello che di fatto erano: degli zotici sadici ed avari; le origini del Ku Klux Klan, in particolare, vengono descritte in maniera sardonica ed efficace: i fondatori non sono, a differenza di quanto mostrava Griffith in "Nascita di una Nazione", degli intellettuali che cercano di salvaguardare la purezza della stirpe americana, bensì dei semplici beoti che non sopportano il fatto che al nero (ossia al "diverso") venga data una forma di dignità.
Tutto il film di fatto si basa sulla dicotomia tra "razzismo" e "comprensione"; i quattro protagonisti Django, King Schulz, Calvin Candie ed il suo capo negriero Steven (Samuel L.Jackson) rappresentano tale dicotomia, nonchè due modi differenti di intendere i rapporti umani; Django e Schulz si comportano e si confrontano tra loro come pari: la loro amicizia è basata sul rispetto reciproco, scevro da pregiudizi razziali (e appare ironico il fatto che il personaggio di Schulz sia tedesco ed interpretato da Waltz, l'implacabile cacciatore di Ebrei di "Bastardi senza Gloria"), come la filosofia della parità tra individui prescriveva nell'Europa dell'epoca; Clavin Candie è invece la perfetta incarnazione del razzismo americano: basandosi su teorie di natura lombrosiana, è convinto che i neri siano schiavi per natura; il nero libero è "uno su diecimila", una semplice eccezione che conferma la regola; Steven, vecchio servo, rappresenta lo schiavo la cui mentalità è stata del tutto plagiata da anni di servilismo: la sua individualità è quasi del tutto scomparsa, segue Calvin come un cane, ne ripete ed enfatizza le frasi quasi ne fosse la caricatura e, sopratutto, spadroneggia sugli altri schiavi quasi come se anche lui fosse un bianco; Django, personaggio ad esso speculare, è invece un uomo libero ("freeman" così come viene ribattezzato) non sopporta la vista dei soprusi, decide autonomamente come agire, mostra compassione per le sue vittime e si rapporta al suo liberatore come ad un suo pari; quando è costretto ad impersonare il negriero lo fa con disgusto; esso rappresenta non tanto e non slolo la voglia d libertaà bensi la dignità che ogni persona sottomessa dovrebbe rivendicare: quando per la prima volta si libera, mostra con orgoglio le cicatrici sulla schienza, in una scena dai tratti epici; quando poi ha la possibilità di rivalersi contro il suo vecchio aguzzino, lo frusta a sangue, ribaltando la logica schiavo/padrone esprimendo non tanto il suo rancore personale, quanto quello di un'intera genia privata di tutto in favore di pochi. 



Lo scontro tra i quattro personaggi, fulcro di tutta la seconda parte della pellicola, è forte e netto; emblema dello scontro, opposto e dialettico, delle mentalità imoperanti all'epoca.
Impossibile non citare, infine, le ottime interpretazioni di tutto il cast, su cui svettano un Jamie Foxx perfettamente controllato ed in parte, che non cerca mai di strafare o istrioneggiare nonostante sia il protagnosta assoluto, ed un Samuel L.Jackson sopra le righe, volutamente fastidioso ed antipatico: in poche parole, semplicemente magnifico.

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