di Quentin Tarantino
Con: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Samuel L.
Jackson, Kerry Washington, Walton Goggins, Franco Nero, Don Johnson.
Western
Usa (2012)
Lo spaghetti western è da sempre uno dei punti di riferimento del
cinema di Tarantino: fin dagli esordi in "Le Iene- Cani da Rapina" la
dilatazione del ritmo e la costruzione delle scene basata sulla colonna
sonora, propria del cinema di Sergio Leone, e le esplosioni di violenza
imporovvise, proprie di quello di Corbucci, hanno rappresentato i punti
cardine dello stile del geniale cineasta americano; l'idea di realizzare
un western "del sud", vicino ai canoni di quello italiano degli anni
'60 e del western crepuscolare alla Monte Hellman, pare tormentasse il
buon Quentin da sempre; subito dopo il successo di "Bastardi senza
Gloria" (tutt'ora il vertice massimo del suo cinema) ecco dunque
giungere questo "Django Unchained", con il quale Tarantino non solo ci
regala un'ottima pellicola di genere, ma, sopratutto, ci dimostra come
la sua idea di cinema non si sia ancora fossilizzata, ma sia ancora in
piena evoluzione.
Nel 1858, il cacciatore di taglie King Schulz
(Christoph Waltz) libera lo schiavo nero Django (Jamie Foxx) e stringe
con lui un accordo: aiutarlo a catturare un gruppo di banditi in cambio
della libertà della moglie Broomhilda Von Shaft (Kerry Washington),
tenuta prigioniera da Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), proprietario
di una gigantesca piantagione di cotone nel Missisipi.
Fin dalle
prime scene l'influenza del western italiano è palese: ai grandi spazi
della frontiera americana si sostiuiscono una steppa aspra e brulla e
gigantesti monti innevati; i personaggi si muovono su percorsi laterali,
quasi mai verticali, eliminando così molta profondità di campo: John
Ford e le sue praterie sconfinate sono un ricordo del tutto cancellato
dall'immaginario tarantiniano; molte delle azioni dei personaggi
principali vengono sottolineate da zommate e panoramiche a schiaffo che
sembrano uscite dritte dritte da "Vado, l'ammazzo e torno" per quanto
sono insistenti e precise; eppure Tarantino riesce a stupire: a
differenza di "A Prova di Morte" e come in "Bastardi senza Gloria" le
sue famose citazioni si fanno più sottili, meno esibite ed enfatizzate,
fino a divenire semplici omaggi; ogni dialogo, ogni azione ed ogni
citazione sono subordinate alla storia e al racconto; e proprio
quest'ultimo rappresenta un nuovo punto di svolta nel cinema dell'autore
americano: esso è, praticamente per la prima volta, toalmente lineare;
la divisione in tre atti, propria del cinema americano classico, è
netta, non vi sono sottocapitoli, nè scissioni del racconto in due o più
parti; come nella pellicola precedente manca ogni forma di
autoreferenzialità e manierismo: pur continuando a giocare con le forme
narrative, Tarantino si evolve, muta e mette in discussione tutte le
soluzioni narrative che ha sperimentato in passato; emblematico è in
proposito il secondo atto, in cui l'autore rifà in modo totalmente
diverso la magnifica sequenza della cantina di "Bastardi senza Gloria",
con la differenza che qui non si ha un crescendo perennemente interrotto
al fine di creare tensione, bensì una scissione in due parti nette
della scena: una prima parte più statica e rilassata che si contrappone
ad una seconda perennemente tesa, che culmina di punto in bianco in un
massacro; il racconto si fa, così, più rigoroso ed efficace, solido e
coinvolgente fin dai primissimi minuti, prova che Tarantino è pronto a
sperimentare nuove vie linguistiche nonostante i venti anni di successi
che ha alle spalle.
Ma "Django Unchained" è sopratutto un film di
contenuti: uno spaccato dell'America alla vigiglia della Guerra di
Secessione e del vergognoso capitolo della schiavitù; schiavitù mai
apparsa in maniera così vivida e pulsante su schermo: con una messa in
scena di genere, il regista ci fa entrare direttamente nell'atmosfera
dell'epoca, dipingendo gli schiavi come delle bestie pronte per il
macero costrette a sopportare tutte le angherie possibili ed
immaginibili a causa dei vizi dei loro padroni; questi ultimi, invece,
non vengono descritti come intraprendenti capitalisti in cerca di
fortuna, per quello che di fatto erano: degli zotici sadici ed avari; le
origini del Ku Klux Klan, in particolare, vengono descritte in maniera
sardonica ed efficace: i fondatori non sono, a differenza di quanto
mostrava Griffith in "Nascita di una Nazione", degli intellettuali che
cercano di salvaguardare la purezza della stirpe americana, bensì dei
semplici beoti che non sopportano il fatto che al nero (ossia al
"diverso") venga data una forma di dignità.
Tutto il film di fatto
si basa sulla dicotomia tra "razzismo" e "comprensione"; i quattro
protagonisti Django, King Schulz, Calvin Candie ed il suo capo negriero
Steven (Samuel L.Jackson) rappresentano tale dicotomia, nonchè due modi
differenti di intendere i rapporti umani; Django e Schulz si comportano e
si confrontano tra loro come pari: la loro amicizia è basata sul
rispetto reciproco, scevro da pregiudizi razziali (e appare ironico il
fatto che il personaggio di Schulz sia tedesco ed interpretato da Waltz,
l'implacabile cacciatore di Ebrei di "Bastardi senza Gloria"), come la
filosofia della parità tra individui prescriveva nell'Europa dell'epoca;
Clavin Candie è invece la perfetta incarnazione del razzismo americano:
basandosi su teorie di natura lombrosiana, è convinto che i neri siano
schiavi per natura; il nero libero è "uno su diecimila", una semplice
eccezione che conferma la regola; Steven, vecchio servo, rappresenta lo
schiavo la cui mentalità è stata del tutto plagiata da anni di
servilismo: la sua individualità è quasi del tutto scomparsa, segue
Calvin come un cane, ne ripete ed enfatizza le frasi quasi ne fosse la
caricatura e, sopratutto, spadroneggia sugli altri schiavi quasi come se
anche lui fosse un bianco; Django, personaggio ad esso speculare, è
invece un uomo libero ("freeman" così come viene ribattezzato) non
sopporta la vista dei soprusi, decide autonomamente come agire, mostra
compassione per le sue vittime e si rapporta al suo liberatore come ad
un suo pari; quando è costretto ad impersonare il negriero lo fa con
disgusto; esso rappresenta non tanto e non slolo la voglia d libertaà
bensi la dignità che ogni persona sottomessa dovrebbe rivendicare:
quando per la prima volta si libera, mostra con orgoglio le cicatrici
sulla schienza, in una scena dai tratti epici; quando poi ha la
possibilità di rivalersi contro il suo vecchio aguzzino, lo frusta a
sangue, ribaltando la logica schiavo/padrone esprimendo non tanto il suo
rancore personale, quanto quello di un'intera genia privata di tutto in
favore di pochi.
Lo scontro tra i quattro personaggi, fulcro di tutta
la seconda parte della pellicola, è forte e netto; emblema dello
scontro, opposto e dialettico, delle mentalità imoperanti all'epoca.
Impossibile non citare, infine, le ottime interpretazioni di tutto il
cast, su cui svettano un Jamie Foxx perfettamente controllato ed in
parte, che non cerca mai di strafare o istrioneggiare nonostante sia il
protagnosta assoluto, ed un Samuel L.Jackson sopra le righe, volutamente
fastidioso ed antipatico: in poche parole, semplicemente magnifico.
Nessun commento:
Posta un commento